Editoriali

EDITORIALE

Che cosa resterà al Kenya di questo 2017

Un anno di stallo, di siccità, di attese e paradossi che speriamo abbia insegnato qualcosa

31-12-2017 di Freddie del Curatolo

L’anno che stiamo per salutare ha costituito un ennesimo scalino nella crescita di consapevolezza del popolo keniano.
Se il Paese africano è una Repubblica da poco più di mezzo secolo, si può dire che sia una democrazia appena maggiorenne e ancora piuttosto immatura.
In quest’ottica, ogni elezione pare un esame scolastico di quelli da “dentro o fuori”, da bocciatura con conseguenze nefaste o promozione stentata con la promessa che alla prossima andrà meglio.
Se la prima vera sessione nel 2008, andò malissimo, quella del 2017 ha rappresentato un esame di maturità.
Ma un esame che ha bloccato il Paese, tra campagna elettorale e conseguenze delle votazioni di agosto, per quasi tutto l’anno.
La verità è che ancora non sappiamo bene cosa sia successo.
O meglio, secondo me l’Africa lo sa benissimo e ce lo rivelerà a puntate, come in una fiction.
Riassumendo come si usa oggi, con un “tweet” sportivo, le puntate precedenti:
Il campione in carica ha vinto.
Lo sfidante ha contestato il risultato. L’arbitro ha imposto di rigiocare la partita ma lo sfidante non si è presentato.
Il campione in carica ha rigiocato contro avversari di pochissimo conto e, ovviamente, ha stravinto.
Lo sfidante non ci sta e promette di farsi incoronare campione dai suoi sostenitori.
Nel frattempo la macchina Kenya prosegue nella sua dicotomia tra crescita economica e sociale, buchi neri di miseria e paradossi.
Nel 2017 abbiamo assistito a una siccità tremenda che ha provocato carestie di bestiame, inaridimento di pascoli e danni alle coltivazioni.
Le battaglie per il possesso di terreni fertili e falde acquifere sono aumentate e, a nord, anche razzie che hanno più la fame vera che il presupposto etnico come disperati motori portanti.
La sanità è stata minata da un interminabile sciopero degli infermieri e delle infermiere, che ha causato disagi tangibili nel già precario sistema ospedaliero. Sciopero che il nuovo Governo ha fatto rientrare, ma che per sei mesi di pre e post elezioni ha messo in ginocchio mezzo Paese.
Le infrastrutture hanno segnato importanti novità: a giugno è stata inaugurata la nuova ferrovia veloce Mombasa-Nairobi, che in questi giorni ha portato per la prima volta al mare, a prezzi modici, migliaia di keniani, permettendo ad una classe emergente che ha voglia di lavorare e di migliorare la sua vita, di accedere a servizi che fino a qualche anno fa erano preclusi.
E qui occorre una precisazione: chi non si cala bene in questo mondo non facile da analizzare, rimane spesso ancorato su pregiudizi che si basano sulle nostre esperienze dirette, e parlo specialmente degli italiani. 
Nei “favolosi anni Sessanta” della nostra Penisola, la gente era felice e immortalata nelle lunghe code che portavano decine di migliaia di connazionali, spesso con la loro prima automobile, in vacanza al mare.
Altri potevano acquistare o costruire una casetta di proprietà dopo aver vissuto per anni in baracche o appartamenti di ringhiera col bagno esterno e senza riscaldamento.
E’ normale che il prezzo da pagare per quella crescita e quella felicità, fossero i palazzinari, gli affari loschi della mafia, chi si arricchiva con la corruzione e senza pagare le tasse.
In Kenya continuano ad arrivare aiuti dalla Banca Mondiale che non torneranno mai indietro e verranno pagati con una nuova colonizzazione economica, ci sono le multinazionali che s’insediano e i cinesi che appaltano, ma sia ben chiaro che è l’unica maniera per fare uscire un minimo questo Paese dalla miseria, perché con le chiacchiere dei benpensanti e dei “buonisti a nulla” non si riuscirà mai a cambiare le cose, ma al limite a sognarle.
E sognare, per quanto meraviglioso ed appagante, è pratica onanista se poi non si vive di conseguenza, rischiando magari anche la propria vita o donandola agli altri, come fanno i tanti volontari italiani in Kenya che lavorano negli slum, salvano vite, costruiscono il futuro auto sostenibile di tanti keniani.
Noi preferiremo sempre occuparci di chi cerca di vivere i sogni, piuttosto che di chi sogna di vivere.
Capitolo turismo: dopo l’impasse di agosto, a Natale abbiamo visto tornare tanti europei e mescolarsi sulla costa ai già menzionati locali. Anche gli italiani, complici le magagne dell’Egitto e le rogne climatiche dei Caraibi, hanno ripreso a considerare il Kenya.
Kenya che dal canto suo ha fatto scelte importanti per l’ambiente, come la storica abolizione dei sacchetti di plastica, e ha inferto ulteriori sconfitte al bracconaggio.
I media, imperterriti, hanno provato a gettare il solito guano di paura, ma anche durante gli scontri elettorali, non sembrano aver atterrito più di tanto chi ancora ama viaggiare in luoghi caldi e speciali.
Nell’anno in cui i camion si lanciano sulle folle in città che sono sempre stati simboli di tranquillità, come Barcellona e Melbourne ad esempio, la traballante resistenza somala di Al Shabaab non si è mai spinta oltre la striscia desertica di confine e la buona ripresa dei rapporti delle polizie locali con i servizi segreti britannici e statunitensi, sta facendo il resto.
Non resta che augurarci un 2018 di piena ripresa e che alcune delle promesse del Presidente Kenyatta (ad esempio quella di eliminare gradualmente gli slum con l’edilizia popolare, o di rinforzare il sistema mutualistico) si possano avverare e che l’opposizione, nella sua sete di potere e fame di una fetta della torta, decida finalmente di collaborare alla crescita di un Paese unico, meraviglioso, pieno di contraddizioni ma anche di risorse.
Uno dei pochi ancora dove dal niente puoi guadagnarti decentemente da vivere e dove ancora ha un senso la parola libertà.
 

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