Editoriali

EDITORIALE

Kikambala e Mtwapa non sono luoghi da turisti

Ecco perché è improponibile il paragone con Malindi e Watamu

25-07-2017 di Freddie del Curatolo

Come accade ogni volta (e per fortuna le volte sono ben poche, sulla costa keniana di media una ogni tre anni), ad un triste fatto di cronaca che riguarda un nostro connazionale, si abbinano paginate di luoghi comuni e di excursus sul "tragico Kenya" o, come titola un quotidiano del Belpaese, di questa "Africa Violenta".
Titoli da film che catturano l'occhio e devono per forza andare sempre a parare in una sola direzione: "voi che vi lamentate dell'Italia, guardate cosa succede ad andare all'estero, specialmente in quei luoghi che vi vendono come paradisi di serenità e sicurezza".
Al di là del fatto che il Kenya è un Paese dove la criminalità è a livelli alti (ma anche dove c'è tradizionalmente un giustizialismo rigoroso tra i suoi cittadini), quando si parla di turismo e dei rischi di una vacanza o di una lunga permanenza, ci sono parecchie cose da obiettare. 
Lasciamo perdere i media superficiali, gli ex giornalisti convertiti al terrorismo psicologico e i cialtroni del copia-incolla; innanzitutto oggi non si può vendere nessun luogo del mondo come "paradiso di sicurezza", in secondo luogo bisognerebbe riflettere sul significato moderno del termine "serenità", visto che per molti sembra diventato solamente un sinonimo di "noia".
Così come una volta si parlava di "avventura" con un'accezione positiva, di entusiasmo e passione, oggi sembra che "avventura" sia diventato un sinonimo di "pericolo" o di qualcosa che debba per forza finire male.
E in mezzo, tra quella che una volta era la serenità e quella che era l'avventura, ci siamo dimenticati l'unico aspetto che varrebbe la pena di coltivare con decenza e naturalezza, come diceva Fernando Pessoa: la nostra vita.
Ieri ed oggi l'indignazione e la paura, due degli stati d'animo più in voga di questi ultimi anni, si sono concentrati sulla tragica fine dei coniugi Scassellati a Kikambala.
Vittime di una rapina efferata nella loro casetta col tetto di makuti in Africa.
"Anche lì succedono queste cose terribili" ha commentato qualcuno convinto che il Kenya sia su Marte.
"Finire così per una rapina è assurdo" ha fatto eco un altro, che forse avrebbe trovato più simpatico il movente passionale, o più perdonabile una storia di droga o di pedofilia.
"Un brutto colpo per il turismo" hanno commentato infine i più cinici e abituati.
Il turismo.
Cosa ha a che fare il turismo italiano con Kikambala, villaggio attaccato a Mwtapa, periferia di Mombasa?
Praticamente niente.
Ecco l'ennesima occasione persa dalla stampa italiana, e dalle pagine intere piene delle solite banalità per cervelli distratti e memorie labili.
L'occasione di approfondire un po', di far conoscere il Kenya, che è grande due volte e mezzo l'Italia, ha 44 tribù (da ieri si sono aggiunti anche gli indiani) con altrettanti idiomi, e oltre trenta ecosistemi diversi. 
Figuriamoci la testa della gente, le condizioni di vita (dai multimiliardari di Nairobi che noi ormai ce li sogniamo, alla miseria del deserto di Wajir o degli slum della capitale) e la vivibilità.
Non si può parlare di Kenya senza conoscerne le migliaia di sfaccettature.
Figuriamoci usare la parola "Africa".
Come siamo piccoli e provinciali quando parliamo di luoghi così distanti.
Troveremo mai due parole serie su Mtwapa e Kikambala su qualche giornale nostrano?
E qualcosa su Malindi che non sia "Briatore" e "evasori fiscali"?
Mtwapa ad esempio è uno dei sobborghi meno ospitali della costa del Kenya.
Forse il meno ospitale in assoluto.
Basta passarci una volta, in macchina, sulla strada che collega Mombasa a Malindi, per rendersene conto.
Quella strada che speriamo presto chi arriva dall'Italia diretto a Malindi o Watamu non dovrà più fare.
Mtwapa è un agglomerato di traffico, sporcizia e condizioni umane al limite.
Qui si per anni si sono dati appuntamento pederasti, spacciatori, individui poco raccomandabili di tutto il mondo.
Oggi è un po' meno zona franca di un tempo, ma è sempre un bel posticino di dannati.
Poco distante c'è il quartiere più povero di Mombasa, Mshomoroni, che porta direttamente alla discarica costiera che è un inferno vero.
Noi ci siamo passati ed è stata una delle poche zone del Kenya dove ci è stato impossibile fare un servizio fotografico, allestire un reportage.
In confronto lo slum di Mathare a Nairobi è stato una passeggiata.
La vita da quelle parti non vale molto, perché si sono persi i parametri con la Natura, con l'Africa, con la vita povera ma dignitosa che la gente comune ha sempre fatto.
Poi c'è il creek, qualche villa immersa tra mangrovie e casuarine, qualche mzungu che resiste anche perché si sa muovere bene.
Kikambala è poco distante e negli anni Novanta ha vissuto un'effimera auge grazie alla sua bianca spiaggia e a qualche hotel tedesco.
Negli ultimi decenni, invece, sembra una località fantasma.
Con l'espansione di Mombasa e l'aumento dei prezzi a Nyali, alcuni italiani hanno pensato bene di trasferirsi in quella periferia meno caotica, anche se molto più isolata. Lì dove i terreni costano un decimo che in città.
A Kikambala non c'è l'industria turistica di Watamu, ci sono discreti hotel e alcuni altri lasciati andare da anni, c'è molta meno mescolanza con gli occidentali che a Malindi.
E quando c'è la fame, è fame vera.
Perché un conto è fare due chilometri nell'entroterra e staccare un mango da un albero, o avere il campo di mais e ortaggi accanto alla propria capanna, piuttosto che ficcare mani e testa in cumuli di spazzatura.
E' un altro Kenya, un'altra costa e probabilmente un'altra vita.
Non solo perché c'è più urbanesimo e meno sicurezza, intendiamoci.
Perché è venuta meno quell'ingenuità, quella spontanea umiltà, la gentilezza, i sorrisi e le maniere rispettose della popolazione locale che per anni ci hanno fatto sentire un po' colonialisti e un po' sfruttatori, ma che quando col nostro stesso aiuto si sono evolute in furbizia, orgoglio, serietà con meno sorrisi e rapporti alla pari, non hanno portato grandi benefici. La vita della gente comune non è cambiata e le condizioni sono rimaste misere.
Con l'aggravante che ora intorno c'è meno bellezza, c'è meno serenità, c'è meno avventura.
E forse c'è più noia, e più pericolo.
Di sicuro da quelle parti, rispetto alle nostre cittadine, manca una cosa, una parola che riempie le pagine dei giornali e le bocche degli opinion-leader e dei tuttologi: il turismo.
Quindi, per favore, non fate di tutta l'erba un fascio, di tutto il Kenya un dramma, e di tutti gli italiani all'estero un turista ignaro.
Non sarebbe meglio per tutti che chi decide di venire in vacanza in Kenya fosse più informato e informato meglio?
E non dovrebbero essere i media, la rete, le televisioni, i giornali i primi a garantire questa informazione, invece di terrorizzare a caso?
Se non sapete di cosa state parlando, potete sempre scrivere una grande verità: quel che è successo a Kikambala può succedere ovunque,
e quindi anche a Malindi e Watamu, così come a Catania e Treviso.
Malindi, Kikambala, Catania, Treviso, luoghi accomunati da una sola cosa, la presenza degli esseri umani.
Altro che "Africa Violenta".
  

TAGS: MtwapaKikambala italianiTurismo KenyaRapina Kenya

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