Editoriali

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Le preoccupelezioni

Pensieri a meno di un mese dal voto keniota

10-02-2013 di Freddie del Curatolo

Tra un mese il Kenya sarà al centro dell’attenzione mondiale per la sua tornata elettorale. 
Non è tanto il “chi vincerà” o l’incertezza sulla tendenza ad andare più “a sinistra” o più verso una monarchia costituzionale ad interessare la collettività e i media, quanto ovviamente se saranno elezioni pacifiche. L’eco delle intemperanze (per usare un eufemismo) di quattro anni fa è ancora vivo, più a livello internazionale che nei preamboli locali. Qui si invoca la pace (“amani”, bellissima parola swahili che coniuga il verbo amare con le “mani”, come fosse una carezza affettuosa). Ne si parla a guisa di un corroborante da ingerire durante un’indigestione.
Sì, perché in Kenya da qualche mese non si discute d’altro che di elezioni.
Noto palliativo d’altri tempi in Europa (ma non di epoche lontanissime, in Italia basta risalire alla prima discesa in campo del passeggiatore di Silversand) oggi nel nostro Belpaese africano le pacifiche e sorridenti schermaglie tra candidati premier e aspiranti parlamentari fanno dimenticare gli annosi problemi che affliggono uno degli Stati più corrotti del Continente Nero e del mondo, una Nazione che potrebbe essere la Svizzera dell’Africa e invece cammina come una vecchia Land Rover a cui manca un cilindro. Tanto c’è sempre chi per spostarsi prende l’aereo.
Insomma, panem et circenses. Il grande gioco della politica, mischiar le carte per poi ritrovarsi davanti (o dietro…) sempre lo stesso mazzo, è iniziato da tempo e non finirà certo il 4 marzo.
Quel che però sta più a cuore a noi italiani, a chi vive grazie al turismo e anche a chi ha scelto o sceglierà la costa keniota per condurre una vita tranquilla, sana, più libera e meno fasulla di quella a cui oggi la Penisola costringe, è che non vi siano scontri, focolai di guerra civile, rivalità etniche o socio-economiche che possano sfociare nel caos generale per tutto il Paese.
V’è da dire che quattro anni fa la situazione esplose inaspettata, perché il Paese non era ancora pronto a un vero e proprio dualismo con un candidato dichiaratamente progressista (effetto Obama?) come Raila Odinga, oltretutto legato alla tribù Luo (la stessa del papà di Barack) tradizionalmente rivale dei kikuyu, da cinquant’anni al potere. Inoltre il caos generatosi fu frutto di un’organizzazione superficiale sin dall’inizio, favorita dai sondaggi rassicuranti per il presidente uscente, il kikuyu Mwai Kibaki che tra poco abbandonerà avendo terminato il suo secondo mandato. Dopo i pastrocchi, davanti alle telecamere di mezzo Pianeta, inevitabile fu la sommossa popolare di una parte degli elettori e la repressione seguente. Con il risultato che oggi il candidato più accreditato è lo sconfitto di allora per il quale è stata istituita la carica “alla francese” di Primo Ministro, e il suo “opponent” è l’attuale Vicepresidente, accusato di crimini contro l’umanità da parte della Corte Internazionale dell’Aja, proprio per le rivolte post-elettorali. 
Una sfida, se si vuole, ancora più accesa della precedente. Tra un mese il Kenya sarà sotto i riflettori mediatici mondiali anche per via di tale match. Elmetto virtuale in testa, siamo preparati ad eventuali proteste dei perdenti, accuse, sfilate, scaramucce, incidenti. Ma come possiamo prevedere la reazione di una parte della “casta”? Facciamo le ipotesi: vince l’opposizione, guidata dal Primo Ministro Raila Odinga. Per la prima volta i Kikuyu, la tribù più numerosa e potente del Kenya, quella che ha in mano le industrie più importanti del Paese, le partecipazioni più pesanti nelle privatizzate e le partnership con le multinazionali più radicate a Nairobi e dintorni, non avrà delegati sulle poltrone di comando. Accetteranno di buon grado di stare a guardare e costruire un’opposizione costruttiva come nelle moderne democrazie? Di contro, una nuova classe dirigente si affaccerà alla ribalta internazionale, sarà capace di governare senza farsi scappare di mano la sicurezza, l’economia, il progresso? Sarà in grado di arginare la crescente corruzione? 
Seconda ipotesi: vince il candidato della maggioranza, indicato anche dall’ipotetico sostituto dell’attuale presidente Mwai Kibaki, l’onorevole Musalia Mudavadi. Stiamo parlando di Uhuru Kenyatta, figlio del “Padre della Patria”, Jomo Kenyatta. Più volte ministro e attualmente vicepresidente, è l’uomo più potente e uno dei più ricchi del Kenya. Il Tribunale dell’Aja nei giorni scorsi ha ipotizzato che in caso di una sua affermazione, le Nazioni Unite potrebbero pensare a sanzioni economiche nei confronti del Paese. Lui si è affrettato a smentire e il suo vice Ruto ha dichiarato che la vittoria di Kenyatta sarebbe la dimostrazione della sua innocenza.
Certo che per una Nazione economicamente in crescita, tenuta in considerazione dagli Stati Uniti e blandita dalla new economy cinese, un Presidente incolpato di genocidio, non sarebbe d’aiuto. Kenyatta però non demorde e c’è solo da augurarsi che eventualmente i suoi prendano la sconfitta con “sportività”.
Sulla costa la situazione appare più tranquilla di qualche mese fa. A settembre c’erano stati i prodromi di un’insurrezione di stampo filo islamico, legata a un movimento extraparlamentare che, sul modello della prima Lega Nord, invocava la separazione della regione costiera dal resto del Paese, contro il centralismo di Nairobi. Le “cellule” più violente del movimento sono state identificate e i leader arrestati, anche perché molti di loro sono stati trovati in possesso di armi o ritenuti in contatto con i militanti somali di Al Shabaab, i ribelli simpatizzanti di Al Qaeda.
Oggi l’atmosfera a Mombasa e periferia appare meno tesa, gli stessi candidati di partiti minori ma ben visti dalle tribù Swahili e Mijikenda, hanno gettato sabbia sul fuoco e predicano pace come regola principale per poter cambiare in meglio il Paese. A Malindi, Watamu e Mambrui probabilmente si respirerà la stessa aria di quattro anni fa. Tutti davanti alla televisione per conoscere i risultati e assistere ai servizi sulle reazioni nel nord del Paese e nella Rift Valley.
Infine, il ruolo dei piccoli partiti e dei loro candidati (c’è anche una donna, l’ex ministro Martha Karua, paladino dell’anticorruzione, il viceministro Peter Kenneth, uno dei massimi esperti kenioti di alta finanza, l’islamico Mohamed Abduba Dida e il maasai James Ole Kiyapi) potrebbe essere fondamentale in caso di fotofinish tra le due coalizioni. Potrebbe verificarsi dunque una regolare compravendita di poltrone, in perfetto stile italico.
Insomma, tempesta nell’Oceano Indiano modello Africa o in un bicchier d’acqua modello Europa? Non azzardiamo ipotesi e non si accettano scommesse, c’è comunque poco da sorridere, specialmente quando tornano alla mente le immagini di famiglie senza più casa, di chiese bruciate, di corpi stesi sul selciato. Si spera solo si tratti di un esercizio di libertà, di una presa di coscienza e, perché no, di una lezione di civiltà dall’alto, come molte che in Africa siamo soliti ricevere dai bassifondi. In ogni caso, Malindikenya.net sarà qui a seguirne le fasi, drizzando le orecchie, aguzzando la vista e…incrociando le dita.

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