Editoriali

EDITORIALE

Silvia e il Kenya: cosa dovremmo sapere

Nuove indagini dopo il colloquio con gli inquirenti?

11-05-2020 di Freddie del Curatolo

A Malindi e nel suo entroterra inzuppato dalle grandi piogge stagionali e minato dal lockdown parziale, non abbiamo ancora smaltito la gioia per una vicenda che ha scritto il migliore dei “The End” possibili, ma già si guarda avanti affinché questo inaspettato precedente, ovvero un rapimento in uno dei luoghi più pacifici ed accoglienti del Kenya, sia d’insegnamento per il futuro e per il proseguo delle tantissime attività solidali che gli italiani continuano a sostenere.
Tutto questo passa inevitabilmente dal primo interrogatorio a cui Silvia Romano è stata sottoposta, con la delicatezza e comprensione del caso, poco dopo il suo arrivo all’aeroporto romano di Ciampino e dopo i toccanti abbracci con i familiari.
Mentre infatti i particolari della sua liberazione in un sobborgo di Mogadiscio, delle trattative, della collaborazione con i servizi turchi e somali e del blitz finale per quanto ci riguarda potranno tranquillamente restare segreti con tutti i loro feticismi da riporto su riscatti ed altre derive più politiche che utili (perché così è sempre stato e così sempre sarà in caso di rapimenti), per chi vive e frequenta questo Paese sarebbe e sarà importante conoscere i retroscena di un sequestro di persona a ottanta chilometri dalle località turistiche frequentate da migliaia di connazionali, in un villaggio dove non è mai stato torto un capello ad uno straniero, se non per acconciare esotiche treccine.
Il Pubblico Ministero Sergio Colaiocco e i Ros sicuramente hanno chiesto a Silvia com’è avvenuto il rapimento, la sera del 20 novembre 2018 a Chakama.
Le domande sono tante e le abbiamo poste da subito sulle nostre pagine, senza mai la presunzione di conoscere una qualche verità ma sposando la linea delle indagini, quella del silenzio che è stata confermata essere alla base del successo dell’operazione di liberazione della volontaria milanese anche dal Presidente del Consiglio Giuseppe Conte.
Silvia conosceva Moses Luwali Chembe, la “mente locale” del sequestro e residente a Chakama?
E gli altri componenti della banda che l’avrebbe caricata su una moto, alternando la fuga a piedi con altri tratti sulle due ruote per un mese prima della cessione ad Al Shabaab?
Si riuscirà a ricostruire il tragitto che l’ha portata al confine? Verranno trovati eventuali complici, nascondigli e covi? Verranno alla luce dinamiche, depistaggi ed altri particolari?
Tutto questo non serve certo a riempire videate di siti o dover giustificare il nostro lavoro, ma deve essere utile a capire come sia potuto avvenire qualcosa di inedito e quasi irreale per questa terra e se in futuro ci potranno essere ancora rischi per chi presta la sua opera da volontario da queste parti, specie in luoghi poco protetti.
Certo, l’abbiamo scritto e lo ripetiamo, una situazione come quella di Silvia, con il portone della casetta comune dei volontari sempre aperto a chiunque, con la completa solitudine degli ultimi giorni, attorniata da persone semplici, pure e innocue come quelle che abbiamo conosciuto nelle nostre assidue frequentazioni di Chakama, è difficile da approvare e già a fattaccio avvenuto lo abbiamo fatto notare a chiunque sia impegnato nel sociale da queste parti.
Aiutare sì, far crescere ancora meglio, ma con attenzione e giusti paletti, con cognizione di causa e in sicurezza. Da questo punto di vista in forza della dolorosa vicenda di Silvia, ringraziando il cielo terminata nella migliore delle ipotesi, le cose sono già cambiate.
Sarà importante dunque che tutte le informazioni “keniote” date dalla ragazza facciano ripartire le indagini e ci facciano partecipi di cosa è veramente accaduto nell’ultimo mese del 2018 tra la valle del fiume Galana, le foreste del Tana River e le zone aride al confine con la Somalia.
Tutto il resto è materia per chi in 18 mesi ha rivoltato già tante frittate che una in più non sarà meno digeribile e per il livore e la frustrazione di chi da tempo è stato rapito dai suoi demoni personali, e non se n’è ancora accorto. A noi è bastato gioire istintivamente vedendo il sorriso di una giovane che non conosciamo e che indossa un jilbab da signorina somala, l’energia di tre abbracci e pensare che a volte “andrà tutto bene”, seppur abusata, non è solo un’espressione di maniera.

TAGS: silvia kenyarapimento kenyaindagini kenya

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