Reportage

FESTIVAL

Al Malindi Music Festival for Children

Cronaca di una serata che è stata vita (non solo tua)

22-02-2011 di Freddie del Curatolo

“La vita è l’arte dell’incontro”, diceva quel poeta brasiliano, che passeggiava su una spiaggia più affollata di quelle africane.
Guardo indietro la scia lasciata dal mio pessimismo occidentale, parallela a quella dell’ultimo "jumbo" che mi ha portato nella terra del "jambo", e respiro serenamente il paradosso che mi vorrebbe uomo di spettacolo (tanto) e di cultura (troppo poca) ma che mi fa vivere dove è più difficile esserlo.
Così campo di mill’altre cose splendide, di begli incontri e di quel po’ di Europa e d’Africa buona che passa di qua.
Il Malindi Music Festival for Children, creatura di un’altra bella persona che abita da queste parti, Tania Miorin, “pasionaria razionale” che lavora per una “en-gi-ò”, quest’anno per la sua seconda edizione, è stata un'emozione da raccontare.
Intanto l’anello di congiunzione tra musica e solidarietà è più che mai quello dei bambini, che ormai sono anche i “miei” piccoli. I loro volti dipinti durante i giochi della mattina erano uguali a quelli dei piccoli calciatori che allevo, i loro occhi grandi e sgranati li frequento tutti i giorni e mia figlia Agata Zena ci si imbatte con il loro stesso sorriso ed entusiasmo.
Poi c’è il legame forte con la Malindi District Cultural Association, il presidente Joseph Mwarandu e il vice Baya, che mi hanno dato qualche settimana fa l’onorificenza di giriama, battezzandomi Mbogo Kimera.
Loro sono i primi a salire sul palco del Festival, che ho la fortuna di poter presentare.
Sotto quel coloratissimo palco, migliaia di persone e anche molti residenti europei.
Canzoni tradizionali giriama e un pizzico di modernità con basso, chitarra e batteria che difficilmente potreste vedere a Kakoneni, Marikebuni o Kayafungo, dove l’elettricità serale la fanno le lucciole e la luce artificiale è qualcosa che fa respirare male, perché arriva dalle lampade a cherosene. La voce ieratica di Mzee Mboko, che ricorda i bluesman di una Louisiana primi novecento, quella roca di Mzee Tendere e le prediche squillanti di Baya, nei loro kanga e kikoi colorati, si appoggiano al vento come fossero della stessa materia.
Che importa se i giovani capiscono e apprezzano di più il rapper Mr.Bado, che aizza la folla, o la sgallettata Nyota Ndogo (Stellina) che appare addirittura sconcia, in una kermesse dedicata ai bambini.
Bando al finto moralismo, i ragazzini di queste parti vivono sulla loro pelle ogni giorno cose ben peggiori, al limite insegnare che il sesso è un momento di gioia e di piacere, e non violenza o scambio di favori, è già realisticamente qualcosa. Arriva il momento clou dello spettacolo che sto presentando in un inglese stentato.
I percussionisti di strada degli slum di Nairobi hanno portato con loro la nuova leva, piccoli musicisti saltellanti che avranno al massimo quattordici anni. Il capobanda parla il linguaggio delle bacchette che vibrano sopra ogni oggetto di riciclo: bidoni, tubi dell’acqua, valvole, taniche. E non potrebbe parlare altrimenti, avendo uno scherzo di denti in bocca. Il mio linguaggio stentato contro il suo linguaggio sdentato. Suoni, colori e allegria da chi si deve scrollare con quanti più forza e rumore possibili la miseria di dosso.
Arriva Eric Wainaina, cantautore keniota da sempre apprezzato per il suo impegno sociale, i suoi testi intelligenti che tentano di smuovere le coscienze di chi ancora ha in testa assurde questioni tribali. “Le cazzate etniche non devono entrare nella nostra vita sociale – dice dal palco – se l’uomo politico viene eletto per servire il cittadino, bisogna giudicare il suo operato, non votarlo perché appartiene alla nostra stessa etnia. Se avete bisogno di un idraulico perché il rubinetto di casa perde, vi affidate all’idraulico più bravo e a miglior prezzo o vi interessa solo che sia della vostra stessa tribù?”. Parole sagge e sacrosante. Un discorso perfino realistico, se fosse vero che i politici fanno i gli interessi della gente.
Ma Eric scrive “Love and protest”, ha due bambine meravigliose cui non stacca gli occhi di dosso nemmeno mentre fa il “sound check” e una moglie, Sheba, che segue con devozione la sua performance.
E’ un artista, un uomo del nuovo Kenya.
Ci dice che c’è speranza, per questo paese. E ce lo canta. “Sawa Sawa”.
Di Paola, Turci, vorrei riuscire a parlare da critico musicale, ma non ci riesco. E’ già un’amica, e ha capito subito l’Africa, il Kenya, Malindi. Aiutata dal marito Andrea, che ha un bel mal d’Africa sotto l’allegra corteccia da meneghino d.o.c. “stanco dei milanesi”, si è immersa nella cultura locale, emozionandosi visibilmente quando i Madca le hanno intonato la sua “Bambini” in swahili misto al dialetto locale. Insieme, sul palco, hanno cantato “Watoto”, ed è stato uno dei momenti più profondi e significativi del festival.
Emozionalmente si tocca l’apice con “Redemption song”, in duetto con Wainaina, ma Paola è trascinante anche con le sue canzoni. I kenioti battono le mani, sembrano capire. Che importa se i microfoni saltano uno ad uno come fulminati dall’insolito temporale di note mai ascoltate in riva all’oceano indiano, se si finisce in venti sul palco a suonare le percussioni colorate dei Juakali passandoci l’unico gelatone rimasto come fosse una bacchetta magica per inventarsi strofe di canzoni, slogan per i bimbi e per l’istruzione, armonie e scioglilingua rap, in un’interminabile jam session.
"Education is your right, education is your future".
Il segreto della vita, per me, è racchiuso in serate come questa.
E’ condividere un’esperienza bella, è riconoscersi, è fare del bene, è sentire questo bene nelle ossa e nel sangue.
Con quante più persone con la stessa tua sensibilità, riuscirai ad avere vicino.

TAGS: Malindi Music FestivalPaola Turci MalindiMalindi MusicaMalindi gente

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