Reportage

REPORTAGE

Dal Vietnam a Malindi Italia

Così il Qwan Ki Do conquistò i kenioti

07-02-2012 di Freddie del Curatolo

Christopher intaglia il legno al mercatino dell'artigianato locale. 
Dalle sue mani escono giraffe, elefanti, guerrieri maasai. 
Martin porta in giro la gente dei sobborghi di Malindi con il suo "piki piki", la motocicletta cinese che ha comperato a rate infinite.
I suoi piedi scalano le marce, si appoggiano sulle gobbe dello sterrato, su marciapiedi instabili e sentieri sabbiosi. 
Non è una vita facile, è la quotidianità keniota di chi aspira a qualcosa in più del piatto di polenta e verdura. 
Christopher e Martin si ritrovano in palestra tre sere a settimana. Indossano il kimono che hanno comperato (sempre a rate, ovviamente) e conducono la lezione. 
Le mani di Christopher ora disegnano l'aria, il mondo che avrebbero voluto.
I piedi di Martin si alzano in volo, come si alzò l'aereo che lo condusse in Italia per gareggiare. 
Un sogno realizzato. 
A Malindi si pratica il Qwan Ki Do, antica disciplina vietnamita. 
E' stato un appassionato italiano, Franco Oriot, a portare il Qwan Ki Do in Kenya. 
Ha preso in affitto uno spazio nella piazza dei matatu, in periferia. Una terrazza chiusa da cui si domina la miseria costiera africana. 
Alla spicciolata arrivano gli altri. Cinque, dieci, trenta ragazzi che, indossando il kimono, smettono per due ore le loro fatiche, i loro problemi, le contraddizioni di vivere nel luccicante mare della Malindi italiana e di continuare a respirare a boccaglio appena sopra la melma della soglia di povertà. 
Eccoli allinearsi, librare gli arti inferiori come ali immaginarie, spiccare il volo verso oriente, verso una vita migliore. 
Attenti agli insegnamenti di Oriot, ma anche pronti a combattere tra loro, con abnegazione. 
C'è chi fa l'askari e vuole migliorare non solo la propria autodifesa, ci sono houseboy, cuochi, operai. Molti lavorano per noi italiani. 
C'è chi ha una balorda vita di strada da sfogare, chi ha visto la morte sua in faccia e quella dei suoi cari nel cuore. 
E' un gruppo affiatato, si conoscono e attraverso gli stessi movimenti si capiscono ed è come se dividessero i dolori in tanti microtraumi, come se un calcio ben assestato, una giravolta volante, un colpo secco e improvviso, potessero infrangere le sbarre quotidiane dell'indolenza africana. 
"I corsi, gli allenamenti, le gare sono gratis - spiega Oriot - nessuno è obbligato a partecipare, viene soltanto chi ne sente il bisogno, come deve essere. Per questo i ragazzi devono comprare il kimono. Io metto a disposizione la palestra e il mio tempo di insegnante. 
Tutto il resto deve arrivare da loro". 
Eppure riesce ad essere un progetto sociale. Molti di questi giovani sono stati recuperati dal rischio della prigione, dalla droga. 
Alcuni, grazie al Qwan Ki Do, hanno recuperato fiducia in sé stessi e hanno trovato un lavoro. 
Tramonta il sole sulla palestra di periferia. Il mondo, sotto, scompare nell'ombra e nemmeno si chiede se sta continuando a girare. 
Domattina Franco sarà di scena dai Christopher e Martin di domani, dai bambini di un orfanotrofio di Mijikenda, che stanno imparando a danzare in vietnamita.
Hanno fretta di imparare, i bambini. Per loro Christopher e Martin sono due eroi, due simboli. 
Loro ce l'hanno fatta. 
E adesso possono insegnare loro, con costanza e disciplina, a disegnare l'aria, a disegnare il mondo. 
Il mondo più vicino possibile a quello che vorrebbero. 

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TAGS: Qwan Ki Do KenyaFranco Oriot

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