Reportage

REPORTAGE

Il controllore del villaggio del ferro

"Difu Simo", appunti da un tour necessario in Kenya

17-08-2020 di Freddie del Curatolo

La carovana che ha deciso di sdoganare le ancestrali credenze sui “matti” nella cultura della costa keniana per metterle a confronto con la medicina moderna, si appoggia sul lato discendente della Malindi-Mombasa che, a furia di essere riasfaltata, ha creato un dislivello che la fa somigliare a certe highways americane ai bordi del deserto dell’Arkansas.
Non ci sono mai stato, in Arkansas ma chissà perché ho sempre pensato che sia meglio vivere dalle parti di Kilifi.
Qui siamo nel villaggio del ferro, almeno così recita il suo nome: Chumani, tra Gede e Kilifi.
Il Kenya Research Medical Institute allestisce il gazebo per il pubblico, con le sedie a distanza sociale e tutte all’ombra perché oggi il sole spacca.
Il palco naturale viene piazzato nella depressione del terreno da cui si vedono passare e fermarsi matatu e tir come su un viadotto.
A dominare tutto e tutti, guardandoci dall’alto e munito di un sottilissimo bastone agitato a mo’ di frustino, c’è il matto di Chumani.
Veste e sveste due t-shirt una sopra l’altra, cambiandogli posizione, usandone alternativamente una per tergersi il sudore del volto. Cammina avanti indietro lungo la curva che la strada disegna e dove è stato creato uno slargo sterrato che funge da fermata a richiesta.
“E’ inoffensivo, fagli pure delle foto – mi dicono i boda boda taxi schierati all’ombra della pianta più grande e fronzuta – è un cane che abbaia e non morde”.
Infatti mi lancia diverse maledizioni, in lingue sconosciute anche a lui stesso, ma appena può ritorna alla sua occupazione ufficiale, che è quella di far salire e scendere i viaggiatori dai matatu.
Immaginario controllore, dispensa consigli a tutti e li invita più o meno docilmente a prendere posto sul diretto per Mombasa o sul “Raha” per Mariakani.
Ecco, questo spieghiamo alla gente che si è ora assiepata sotto il baobab, che diventa una tribuna laterale aggiunta per vedere lo spettacolo: il controllore dei matatu è accettato, conosciuto e in fondo ben voluto da tutti. Perché lui per primo non mostra di soffrire della sua diversità, è nel suo mondo e chissà, forse qualcosa gli dice anche che è diventato un personaggio.
Ma cosa ne è di tutti gli altri, che magari sono anche un passo avanti a lui, perché soffrono maggiormente e magari hanno momenti di lucidità in cui capiscono la loro diversità e quanto per gli altri sia sinonimo di influenze negative? Nessuno fa niente per loro, se non qualcosa di male.
Katoi Wa Tabaka, con la complicità del chitarrista della Afro Simba Band attacca un vero e proprio blues che racconta più o meno questo. “Vilalu si utsai”, i matti non sono demoni.
“Portalo in ospedale, loro ti diranno come ti devi comportare, non è indiavolato, è solo malato, non servono catene, ci sono medicine” canta poi su un’accattivante base reggae Angey Fresh, beccandosi la sua dose di applausi e sorrisi. Speriamo che il messaggio sia arrivato anche qui.
Lo spettacolo intorno sono i volti degli abitanti di Chumani.
Sguardi, movenze e complicità che parlano da sole, che raccontano la serena accettazione di chi è scampato alla diversità e pensa che forse sia già abbastanza non essere nato storpio, scemo o epilettico. Perché la povertà si può condividere.
Per la diversità, invece, non c’è niente da fare, l’uomo non ha ancora imparato.

TAGS: difu simochumani kenyakemrimadca

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