L'angolo di Freddie

IL RACCONTO

Il pescatore di Migingo

Un racconto che prende spunto dall'isola contesa tra Kenya e Uganda

28-01-2012 di Freddie del Curatolo

Io non lo so se sono ugandese o keniota.
Mi hanno trovato, che non avevo ancora due mesi, dei pescatori tanzaniani su una bagnarola al largo di Kisumu.
Dice che la mamma era una che probabilmente faceva la spola tra Kisumu, che è in Kenya, e Jinja, il principale porto dell’Uganda.
“Sicuramente non è tanzaniano - hanno pensato e detto del neonato che ero – perché da queste parti le malaya sono tutte ugandesi o keniote”. 
In fondo i figli di puttana non hanno cittadinanza, figuriamoci io che non ho neanche una madre. 
A dire il vero mi spiace più per lei, avrei potuto essere l’unico maschio a chiamarla con il suo vero nome e a non umiliarla in cambio di denaro.
Così sono cresciuto con loro, i pescatori del lago Vittoria.
Pescatori di frodo, perché se è vero che le acque territoriali del Kenya sono poco più di un decimo di quelle ugandesi e tanzaniane, è altrettanto certo che il pesce più buono abbonda proprio dentro i confini kenioti.
A difendere i pescatori ci devono pensare i pescatori stessi, perché i poliziotti della marina che vengono mandati al confine tra le acque territoriali, non fanno altro che prendere buone mance. I tanzaniani sono contenti, perché i soldati di Kisumu li trattano meglio degli ugandesi, ma la vera battaglia è con gli ugandesi stessi, per aggiudicarsi il punto più pescoso.
Fin da piccolo, sognavo di avere una barchetta tutta per me.
Come quella dove ero nato, un guscio di legno per farmi gli affari miei. Tanto io mica sono keniota, ugandese o tanzaniano.
Io sono figlio di puttana, pesco dove mi pare. E pesco il persico migliore e il furu mangiabile, perché di furu ce ne sono almeno quattromila specie diverse. Io queste cose le so, coi furu ci parlo, perché sono nato in mezzo al lago, come loro.
E il lago, mi ha detto il vecchio pescatore tanzaniano Migingo che mi ha fatto da padre, non è come il mare, dove tutto si disperde. 
Le storie dei pesci rimbalzano e tornano indietro, ancor più ricche di particolari e di verità. I furu mi hanno detto che sono tra i pesci più antichi del mondo, alcune specie hanno 12 mila anni; il persico del Nilo, invece, è stato introdotto a forza cinquant’anni fa nel lago, creando una rivoluzione. 
Lui si adatta e si riproduce facilmente, non ha abitudini particolari e non ha una storia alle spalle da rispettare.
Mangia qualsiasi tipo di vegetali ma così facendo ne ruba alcuni tipi a pesci che non ne trovano più e piano piano si estinguono, o cambiano zona, andando sempre più verso l’insondato centro del lago. 
Lavorando sodo e ingraziandomi il capo dei venditori di persico di Jinja, ancora giovane mi feci la barchetta. Chi desiderava il pesce migliore, doveva venire a cercarmi. 
Una mattina, mentre seguivo la corrente fredda preferita dal persico rosa, mi imbattei in un’isoletta sperduta, a occhio e croce proprio al confine tra le acque keniote e quelle ugandesi. 
Se si potesse disegnare un triangolo, tracciando una rotta da Kisumu e facendola incontrare con un’altra che arriva da Jinja, ecco l’isola a cui volli dare il nome di chi mi salvò la vita. Sono sei ore buone di barchetta dalle coste del Kenya e almeno il doppio da quelle dell’Uganda.
I poliziotti con le loro lance ci mettono all’incirca la metà. Ma qui non erano mai arrivati, prima di allora. 
L’isola aveva una strana forma di pane lievitato, o della schiena di quegli animali da traino che ho visto a Kisumu.
Sarà stata lunga duecento metri e larga cinquanta.
Uno scoglio con un po’ d’erba sopra, nulla più. Comodo abbastanza per farci una baracca di lamiera e metterci le mie cose. 
Col tempo mi ero fatto due capre (no, non come credete voi, per quello vado a Kisumu cercando di non pensare alla mamma, e comunque con mie coetanee, tanto per non sbagliare…) e un orticello, dove però crescevano soltanto spinaci. Meglio che niente. 
L’isola di Migingo era una miniera d’oro.
Ogni mattina caricavo la barchetta di pesce, ce ne stavano almeno cento chili.
Avevo potenziato anche il motore, così in quattro ore ero a Kisumu, rivendevo, comperavo qualcosa per l’isola e me ne tornavo prima che calasse il sole.
Non immaginate che spettacolo sia la volta celeste illuminata di stelle in mezzo a un lago di cui non vedi i limiti. E’ tutto blu, intorno e in alto.
E ti addormenti felice di essere venuto al mondo proprio lì e a quella maniera.
Tuttavia ero preoccupato per il futuro, che prima o poi qualcuno potesse scoprire il mio nascondiglio, la mia miniera di pesce, il mio piccolo paradiso privato. Così a Kisumu dicevo che abitavo a Jinja e viceversa, ogni tanto incontravo pescherecci ai quali fornivo ottime indicazioni su altre correnti buone per il persico, tanto che mi tenevano in grande considerazione e non facevano molte domande, così come i poliziotti sulle loro veloci lance, ai quali regalavo soffiate sulle rotte degli ugandesi a cui spillare qualche quattrino in più.
I problemi potevano arrivare dai nuovi avventurieri lacustri, che non erano pescatori e non avevano le loro regole e la loro filosofia. 
Erano pirati o povera gente, che aveva scelto di lasciare la terraferma perché non le dava abbastanza per vivere o perché non abbastanza furbi o cattivi per resistere ai soprusi dei loro simili.
Per me, invece, che ero solo e pacifico, erano abbastanza furbi e cattivi.
Quando arrivarono, una notte, per portarmi via le capre, che a quel tempo erano sette, e il motore della barca, neanche me ne accorsi.
Ci misi cinque notti a incontrare, con la forza delle mie braccia e dei remi, i miei amici tanzaniani che mi portarono a Bukoba a comperare un motore di seconda mano da pagare a rate. Garantirono per me. A quel punto, però, loro sapevano dell’isola, perché mi ci avevano trascinato a lasciar la barca e ora mi riportavano indietro. Mi raccomandai di tenere il segreto, pena il silenzio futuro sulle correnti del persico.
Qualche giorno dopo arrivò invece un peschereccio. Era gente di Kisumu, che conoscevo.
Furono gentili, come lo è sempre stato chiunque con me, ma dissero anche che Migingo non era certo mia e che non avrei potuto comperarla, quindi sarebbe stato utile dividerla con qualcuno, tanto più che di pesce ce n’era così tanto che avrebbe dato guadagno a loro senza impoverire me. 
Gli dissi dei pericoli dei pirati tanzaniani e risposero che ci saremmo organizzati con turni di guardia. In effetti le cose andavano bene, le loro due baracche di lamiera erano sul lato opposto a quello della mia, in leggero declivio, per avere un po’ d’ombra. Le mie palme, intanto, erano già cresciute. Da loro era ancora tutto brullo e c’erano anche più rocce. Non ero più il padrone di Migingo, ma c’ero pur sempre arrivato per primo. In pochi mesi le baracche erano cinque, più la mia. I parenti dei pescatori avevano capito o qualcuno non era riuscito a tenersi il segreto. Io ormai andavo a vendere soltanto a Jinjia, perché di persico rosa a Kisumu erano piene le bancarelle. Un pomeriggio mi accorsi che un natante mi seguiva. Spensi il motore per far sì che mi raggiungesse, essendo già troppo vicino a Migingo. Ma la barca fece dietrofront e sparì all’orizzonte.
Quando arrivai sull’isola, trovai una vera impresa di costruzioni in lamiera.
Le baracche nel giro di poche lune erano già settanta, in quello spazio esiguo. Due ragazzi di Homa Bay, due luo così alti che avevano una baracca su misura che sembrava un piccolo grattacielo, in confronto alle altre, aprirono il primo bar. Tornavano dalla vendita del pesce con alcolici d’ogni genere, avevano un piccolo generatore che faceva funzionare le luci, lo stereo e un minuscolo frigorifero, ma soprattutto portavano la Chang’a appena fatta, una micidiale grappa di tuberi che stendeva all’istante, rendendo più sopportabile la vita in quello sputo di mondo che era per loro l’isola. 
Io forse sono un sentimentale, forse solo un pesce che, come i suoi simili, può andare in branco, schiacciato nel gorgo d’una corrente insieme ad altri mille, o solitario a cercar pertugi e anfratti sul fondo di pietre e melma, ma stavo ancora bene nella mia baracca, con due caprette, le mie palme e i miei spinaci. Qualche giorno dopo, sbarcarono a Migingo due battone. Una non si capiva bene se era un maschio finito sotto un camion e riattaccato con i primi pezzi trovati in ospedale, tra cui un paio di tette, o un mostro lacustre dell’arcipelago di Ssese.
L’altra sembrava il remo di una grossa barca ed era totalmente priva di cervello, probabilmente annegato tempo addietro nella Chang’a. Comunque pagavano la loro baracca cinque volte più del normale ai due luo del Migingo Pub (l’unica consolazione di questa storia e che l’isola abbia mantenuto il nome che le diedi) ed era quella l’unica forma di sfruttamento. Per andare da loro, ogni sera, c’era la fila. Le due avevano assunto uno storpio, si diceva cugino di una di loro, che controllava i pagamenti e soprattutto fermava le danze quando le ragazze venivano meno, anche se il mostro lacustre, che era molto attaccato ai soldi e non voleva fare quella vita ancora a lungo, aveva dato ordine di farsi rinvenire, almeno un paio di volte, con dei sali apposta. Il remo invece non reggeva molto, e anche per questo costava un po’ di più. 
Gli ugandesi arrivarono una mattina che non ero uscito. Ormai avevo ridotto la mia attività a due soli tragitti, le altre volte mi limitavo a prendere le mance per segnalare ai miei vicini di baracca i punti migliori dove pescare, dato che loro avevano sempre fatto i contadini. In compenso, finalmente, spuntavano i primi pomodori.
Erano in una dozzina e parlarono con i luo del bar, che ormai erano i boss dell’isola, anche se si consultavano con altri capoccia del commercio ittico e con me solo per le questioni metereologiche o di correnti e rotte. Pretesero una piccola fetta di Migingo in cambio del loro silenzio con le autorità. Sembrava che ci fosse una disputa, attorno a quell’isola e che non si sapesse bene se era keniota o ugandese. Non conoscendola, nessuno dei due governi si era mai posto la questione.
Uno degli ugandesi, in ogni caso, era un poliziotto.
Quindi l’accordo fu raggiunto. L’isola ormai straboccava di gente, c’era spazio anche per un altro pub, che non faceva troppa concorrenza ai due boss luo, perché era per i musulmani e non vendeva alcolici, se non di nascosto. In compenso cucinava ottime crocchette di furu e anche qualche dolce strano da mangiare bevendo te alla cannella, secondo me sempre a base di pesce.
Quando tornarono i pirati tanzaniani, questa volta erano armati.
Iniziarono a sparare dal largo e le pallottole rimbalzavano o si incastravano nella lamiera. Minacciarono di mettere a ferro e fuoco l’isola e iniziarono con due barche. A quel punto, per salvare il salvabile, gli furono consegnati motori e soldi.
Una disgrazia per Migingo, ma anche un evento che per la prima volta fece sentire tutta la gente dell’isola, ugandesi compresi, una cosa sola.
Avevano tutti gli stessi problemi e uguali aspettative. Quindi insieme sarebbero usciti dalla crisi, lavorando e prendendo le dovute precauzioni. Il prezzo del persico più pregiato, dal giorno dopo, era già aumentato ed erano state acquistate delle armi dai contrabbandieri ruandesi di Kisumu. La pescosità di Migingo era tale, anche se già diminuita da quando l’avevo scoperta, che nessuno si sarebbe mai sognato di abbandonarla, e che chiunque avrebbe difeso la propria barca e la baracca a qualsiasi costo.
Ma nulla si può fare quando è l’autorità a importi le regole.
Si può cercare di far valere le proprie ragioni, ci si può ribellare, ma il timore di essere portati in prigione o anche avvicinati con garbo e poi assassinati brutalmente in alto mare, è troppo grande per osare.
Quando è arrivata la polizia ugandese e ha piantato una bandiera sull’isola, i due luo del bar sono subito scesi a patti con il diavolo, fissando la tassa e così hanno fatto poi i pescatori. Dice che è stato lo stesso poliziotto a cui era stata data una fetta di isola a chiamarli, per difendere i loro interessi dai pirati. 
Insomma, Migingo era diventata ugandese ma per chi viene a controllare è tutto a posto. 
“C’è solo qualche profugo che si arrangia vendendo il persico” è il resoconto alle autorità portuali.
La sera, al pub, ai kenioti però non andava giù che gli ugandesi avessero piantato la loro bandiera. 
E con che diritto? Gli avevano forse mostrato un foglio, una mappa in cui si confermava che Migingo era Ugandese?
Così decisero che in ogni caso, avrebbero preferito pagare il pizzo a un ufficiale keniota, piuttosto che a un “nero nero”, come chiamavano gli ugandesi, che spesso sono più scuri di loro. Qualche giorno dopo arrivò anche la polizia marittima keniota, con una lancia meno bella di quella ugandese, ma le divise più pulite. In una cerimonia ufficiale, rimossero la bandiera dello stato confinante e piantarono quella del Kenya.
L’appuntamento era fissato per l’ultimo giorno del mese, quando gli ugandesi sarebbero passati a ritirare le tangenti.
E i “neri neri” arrivarono puntuali come solo quando c’è da riscuotere. Le loro facce sono uno dei ricordi più divertenti che serbo dell’isola.
Quando videro la bandiera keniota, furono sul punto di caricare i mitra, poi quando videro anche l’ufficiale di Kisumu, che già conoscevano per alcuni scontri verbali in alto mare riguardo ad altre dispute, capirono. 
“Siamo arrivati prima noi” 
“In realtà sono arrivati prima i nostri, intesi come cittadini kenioti” 
“L’isola è ugandese” 
“Mostrateci una mappa ufficiale che lo dimostri” 
“La stiamo facendo fare” 
“Anche noi la stiamo facendo fare, se ne occuperanno i nostri governi” 
“A meno che…” 
“A meno che?” 
“Non lasciamo tutto com’è e dividiamo” 
“Noi siamo nella ragione, “nero nero”, quindi non si divide un bel niente” 
“Nera nera sarà tua madre, dopo che mio fratello se l’è ripassata…” 
“L’ha ripassata tuo fratello perché tu sei frocio…” 
Seguono spintoni, cazzotti e per poco non si arriva alle armi. Sono i due ufficiali, ancora a terra, a urlare di finirla.
Ora la questione è in mano ai due governi e tutti conoscono Migingo. 
Sono arrivati giornalisti ad intervistarci, televisioni a riprenderci.
E’ più di un anno che non si sa se questo sputo di mondo è ugandese o keniota.
Per i monti è più facile, il primo che ci arriva pianta la sua bandiera e se non c’è n’è un’altra, significa che mai nessuno è arrivato fino a lì. Io quando sono arrivato a Migingo, per primo, non avrei saputo che bandiera piantare, perché ancora oggi non so se sono ugandese o keniota.
O anche ruandese, zambiano, zairese o uno strano tipo di tanzaniano.
La cosa curiosa è che, mentre gli stupidi umani se la litigano, il persico rosa ha deciso di andarsene, e ora intorno a Migingo c’è solo furu e persico insapore.
Così ho preso la mia barchetta, ho potenziato il mio motore, ho riserve di benzina e due caprette.
Seguo la corrente del persico buono.
Lui conosce l’uomo e conosce me.
Sa sempre dove portarmi. Ma questa è un’altra storia che non so se racconterò mai a qualcuno che non sia un pesce.



(KAMPALA) – Prosegue, tra Kenya e Uganda, la disputa per la piccolissima isola di Migingo, in mezzo al lago Vittoria. Da oltre un anno i due stati rivendicano la proprietà dell’isola, uno scoglio su cui vivono oltre cinquecento persone, in prevalenza keniote e tutte dedite alla pesca. 
Il giro d’affari derivante dalla pesca del persico, che abbonda in quella zona, ha spinto Kenya e Uganda a sfiorare lo scontro tra forze di polizia giunte sul posto. L’isola è sempre stata ritenuta keniota e abitata da suoi cittadini, ma ultimamente le autorità di Kampala ne hanno rivendicato la proprietà, esigendo imposte e permessi d’ingresso agli stranieri. Per tutta risposta, il Kenya ha inviato l’esercito, che ha deposto la bandiera ugandese. Dopo questa provocazione, con il rischio di uno scontro armato in mezzo al lago, è intervenuta la diplomazia politica. Ma la soluzione ancora non si vede. Secondo racconti dei pescatori di Migingo, fino a qualche anno fa l’isola era abitata da un solo pescatore, di cui però si sono perse le tracce.
(ANSA)

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