Racconti

I RACCONTI DI CLAUDIA

Zawadi

"..la più grande e bella avventura della loro vita insieme"

17-11-2016 di Claudia Peli

La trovarono in un secchio abbandonato sotto una tettoia di mabati nella foresta.
Un secchio rosso senza manici, sfregiato da una crepa nera.
Era una mattina di fine luglio, aveva piovuto tutta la notte e c’erano fango e pozzanghere ovunque. Le rane andavano a caccia d’insetti sugli specchi d’acqua; le scimmie tra i rami dei manghi spiavano il villaggio degli uomini.
Dopo l’alba il vento aveva soffiato via le nuvole  ed era spuntato il sole, e il cielo era diventato così azzurro e puro come può esserlo solo in Africa.
Lontano da lì, in una stanza affacciata sull’oceano, Edoardo aveva sbirciato fuori dalla finestra e le aveva chiesto:
“Allora si va nella foresta?”
“Io sono pronta.”
Giorgia aveva sorriso infilandosi la macchina fotografica al collo.
La tettoia di mabati era in fondo al villaggio, lontana dalle capanne, e pareva non venisse usata per alcuno scopo.
C’era odore di urina, e qualche escremento animale.
Forse ci andavano a dormire i cani randagi del bush la notte.
Il mabati era arrugginito e si era imbarcato al centro, sotto il peso di un grosso ramo spezzato; le scimmie qualche volta ci saltavano sopra e facevano un gran chiasso, poi arrivava qualcuno a tirar loro le pietre.
Il villaggio si chiamava Lalehe e lì non arrivava il profumo del mare, e neppure la  sua brezza.
Lì c’era terra secca che sotto il sole si alzava in polvere e andava negli occhi  degli uomini, mentre sotto la pioggia diventava palude.
Giorgia aveva scelto Lalehe per scoprire un pezzo autentico di Kenya, le era piaciuto il suono dolce del nome, le era piaciuto il fatto che fosse un angolo di terra isolato dalla civiltà del cemento.
Il tassista le aveva detto che non c’era niente laggiù da vedere, ma lei aveva fatto finta di non sentirlo.
Aveva cominciato a piovere all’improvviso: non si erano neppure accorti delle nuvole scure che erano arrivate da sud.
L’aria era diventata buia e fredda e il verde luminoso della natura si era spento. Il loro taxi era lontano, perché si erano addentrati a piedi  nella foresta, e nemmeno correndo  ci sarebbero arrivati asciutti.
Gli uomini del villaggio si erano rintanati nelle loro capanne, nessuno aveva offerto un riparo ai due wazungu che  erano corsi a cercare un po’ di asciutto sotto la chioma di un mango.
“Speriamo che passi in fretta.”
Lei aveva guardato in alto, ma il cielo era nero e basso.
Lui l’aveva stretta di più per ripararla dalle raffiche di vento. La pioggia però cominciava ad insinuarsi tra le foglie fitte e a cadere sulle loro teste.
“C’è una tettoia laggiù, sotto quella grande pianta, la vedi?” Le chiese.
“Sì, se corriamo come gazzelle non ci bagneremo troppo, eh?”
E le scappò da ridere.
Edoardo la prese per mano, contò fino a tre, e corsero insieme verso il riparo.
Non c’era neanche una panca per mettersi un po’ comodi, solo un secchio rosso e sporco. Magari a ribaltarlo ci si poteva sedere sopra.
Edoardo gli diede un calcetto, una nuvola di mosche si alzò ronzando nell’aria. E si sentì un rumore, una specie di verso soffocato.
“Hai sentito? C’è qualcosa lì dentro.”
“Stai lontana, magari è un serpente.”
“I serpenti stanno zitti, non lo sai?” Lo prese in giro.
Lui sbuffò.
Si avvicinò di nuovo al secchio e lo mosse con cautela col piede.
Era pesante, c’era qualcosa dentro.
“Passami la torcia, dai.”
Allungò una mano dietro.
Giorgia si avvicinò e disse che voleva fare lei, che non aveva paura.
Si sporsero entrambi sopra il secchio e lei lo illuminò.
Il fascio di luce colpì una piccola sagoma scura.
Era grinzosa, ossuta, e si muoveva.
Giorgia indietreggiò intimorita.
“E’ un animale?” Gli chiese.
“Credo sia una scimmia, ma non capisco bene. Aspetta.”Spezzò un rametto dalla pianta e impugnò la torcia, poi con delicatezza mosse la creatura nel secchio.
“Stai attento, fai piano.”
“Oddio no …”
Si portò le mani alla bocca, la torcia gli cadde per terra.
“Cos’è amore? E’ una cosa brutta?”
Gli appoggiò una mano sul braccio.
Lui deglutì e scosse la testa.
Sentiva il cuore che gli batteva forte.
“Lì dentro c’è un neonato.”  Sussurrò incredulo.
Giorgia  inorridì, gli occhi e i pensieri si riempirono di sgomento.
Si chinò sul secchio e ci guardò dentro da vicino: sì, era proprio un bambino nudo, aveva solo pelle sulle ossa piccole.
Infilò dentro un braccio e con i polpastrelli toccò la testa del bimbo; udì un vagito flebile.
“Non è possibile. Lo hanno lasciato qui dentro a morire?”
Guardò con disgusto verso le capanne in fondo al sentiero di fango e di rane. Un muro di pioggia cadeva nel mezzo.
Uno squarcio di rabbia le artigliava la pancia.
Quella mattina avevano deciso di uscire dall’hotel ed andare ad esplorare i dintorni della cittadina. C’erano parecchi villaggi africani nel bush, a pochi chilometri dal mare: piccoli insediamenti umani dove la gente viveva una vita semplice e tradizionale.
Giorgia era stufa di trascorrere le giornate in spiaggia, non era venuta in Africa solo per abbronzarsi e comprare souvenir: era lì  per scoprire qualcosa di autentico, qualcosa che la emozionasse.
Ed Edoardo la pensava allo stesso modo.
Gli aveva detto che le pareva di buttare via del tempo prezioso a stare tutto il giorno chiusa in un recinto dorato. La stanza sull’oceano era diventata troppo piccola per i suoi desideri.
L’Africa era lì fuori, bastava aprire  meglio gli occhi e allungare i passi.
“Ci deve essere qualcosa di più vero oltre il cancello.”
“Lo so, domani andiamo a vedere cosa c’è nella foresta.”
“Laggiù dove tramonta il sole ogni notte?”
“Laggiù da dove arriva il suono dei tamburi.”
E lei si era illuminata di gioia ed energia.
Era calata la sera, nel buio guardavano le stelle seduti sul muretto della spiaggia, le gambe penzoloni e le caviglie si sfioravano.
Giorgia disse che era emozionata per la gita in programma, non vedeva l’ora di vedere come vivevano gli africani. Dai documentari in tv aveva imparato parecchio, ma non era la stessa cosa.
“Ho letto che vivono in capanne fatte di fango e di sterco. E i tetti li fanno con le fronde di palma.”
“L’ho letto anche io. Non hanno luce né acqua. Lo sai?”
“E cucinano tutti insieme su un fuoco comune, fuori all’aperto.”
“Vivono nel passato, è pazzesco vero? Se pensi che un’altra parte dell’umanità abita in grattacieli di acciaio e cristallo.”
Stettero in silenzio per alcuni minuti, ognuno immerso nei propri pensieri.
“Non deve essere una vita facile.” Disse Giorgia dopo un po’.
“Per forza, a loro manca tutto.”
“Dipende da che cosa uno necessita veramente.”
“Cioè?”
“Voglio dire che se hai bisogno di poche cose per stare bene, non ne cerchi altre. Se sei abituato da sempre a vivere una vita semplice e povera può andare bene anche così.”
Ma Edoardo scosse la testa, non sembrava troppo convinto.
“Ma cosa credi, che loro non sappiano che c’è un modo di vivere più agiato? Parecchi africani lavorano negli alberghi e nelle case dei bianchi. La differenza tra loro e noi è tangibile e ce l’hanno sotto gli occhi tutti i giorni.”
Lei si strinse nelle spalle, forse aveva ragione lui.
Magari le tribù nomadi e isolate, lassù sugli altopiani, lontane dalla civiltà,  non avevano bisogno di altro e vivevano una vita serena e spartana senza desiderare niente di più.
Lì sulla costa era diverso, se ne erano accorti subito.
In spiaggia c’erano parecchi ragazzi che li assillavano con richieste di soldi e regali. Erano invadenti ed ostinati; pretendevano telefonini, orologi o occhiali da sole. Alcuni si vestivano seguendo la moda occidentale, e quasi tutti quelli con cui avevano parlato avevano un sogno: andare in Europa a fare un bel po’ di soldi.
Edoardo ci rideva sopra e provava a fargli capire che non era poi un paradiso, l’Europa, e che parecchi africani venivano trattati male nel suo paese. Ma qualcuno gli aveva detto che era stanco di vivere in una capanna fatta di merda di mucca. Così lui non aveva più detto niente, perché non era giusto infrangere i sogni altrui.
“Deve essere frustrante.”
“Cosa?”
“Desiderare fortemente una cosa e non poterla raggiungere. Sognare di andare via e restare sempre qui. Non avere la possibilità di scegliere.”
Giorgia gli accarezzò una spalla.
“Mi hanno detto che una ragazza italiana che lavorava nel nostro hotel anni fa ha vissuto in un villaggio giriama per qualche tempo.”
“Intendi dire con loro dentro una capanna?” Chiese lui stupito.
“Sì, ha sposato uno della tribù e si è trasferita da loro. Quella sì che deve essere una esperienza di vita intensa.” E sospirò.
“E’ una scelta troppo radicale; io non credo che ce la farei sai?”
“Per amore si affrontano mille difficoltà. Anche per lei non sarà stata una passeggiata, però lo ha fatto. Io ammiro certe scelte.”
Edoardo annuì, e pensò che sua moglie fosse un’inguaribile romantica.
“Va bene, allora sai cosa ti propongo? Trascorriamo in una capanna del bush gli ultimi tre giorni della nostra vacanza. Al diavolo l’hotel cinque stelle, la beauty farm, il buffet ricco di leccornie e tutto il resto. Cosa ne dici?”
Lei scoppiò a ridere perché sapeva che si trattava di una provocazione.
Il suo Edo non avrebbe mai abbandonato il lusso e la comodità dell’hotel per quattro pareti di sterco e un tetto di paglia.
“Amore ci sono i serpenti e i ragni, lo sai vero?”
E gli stuzzicò il ginocchio con la punta delle dita.
Lui l’abbracciò stretta e la chiamò tesoro mio, e la coccolò sotto le stelle.
La marea stava salendo, ora le onde arrivavano fin quasi sotto il muretto. Erano soli, tutti gli altri stavano assistendo ad uno spettacolo dell’animazione nell’anfiteatro.
Ogni tanto passava una guardia a fare la ronda, gli illuminava le schiene vicine, li salutava con un cenno e proseguiva lungo la recinzione.
La spiaggia era deserta. C’erano solo i granchi che si divertivano a rotolarsi tra le onde, mentre di giorno se ne stavano al fresco nascosti nei loro cento buchi.
Laggiù in fondo, sulla pelle buia dell’oceano si intravedevano le luci fioche delle barchette dei pescatori. Era grazie a quegli uomini che ogni giorno al buffet trovavano il pesce fresco.
“Riesci a contarle?”
“No, appaiono e scompaiono in continuazione. Saranno una ventina.”
“Escono tutte le notti. Hai visto le loro imbarcazioni? Sembrano dei gusci, se le fanno da soli scavando i tronchi.”
“Io avrei una fifa nera a salirci, e loro si avventurano fuori in mare aperto senza paura.”
“Se vogliono mangiare devono spingersi laggiù. Il pesce è gratis e abbonda, basta andare a prenderselo.”
Entrambi pensarono al mare in silenzio.
Nei giorni precedenti avevano visto alcuni uomini anziani, consumati dal sole, dal vento e dal sale che riparavano le loro grandi reti all’ombra delle palme. Edoardo aveva scattato delle fotografie ed era rimasto incantato dalla loro manualità.
Poi Giorgia lo aveva chiamato.
“Amore guarda laggiù!”
Gli aveva indicato un uomo che camminava sul bagnasciuga, curvo sotto il peso di qualcosa che si portava sopra la testa.
Pareva un materasso. Solo quando era stato abbastanza vicino a loro avevano capito che si trattava di un enorme pesce vela appena pescato.
“Che meraviglia! Hai mai visto niente di simile?”
L’uomo passò accanto a loro e Giorgia sentì l’odore forte e unico della bestia che luccicava di blu intenso.
Volle quasi allungare una mano per sfiorare la sua coda, ma si trattenne per pudore. Edoardo la immortalò così: bella e curiosa.
La vacanza in Kenya l’avevano sognata per anni.
Avevano messo da parte i soldi mese per mese, facendo qualche rinuncia e qualche taglio qua e là. 
Era il loro decimo anno di matrimonio e si erano regalati due settimane in Africa per festeggiare. E chissà, magari laggiù nella fertile terra dei loro avi, dove tutto aveva avuto inizio, sarebbe potuto accadere un miracolo: chissà se questo viaggio  avrebbe regalato loro un figlio tanto atteso e non ancora arrivato.
Una stella cadente sfavillò nel cielo, e il desiderio che espressero nel cuore in segreto fu lo stesso.
Si abbracciarono stretti.
Giorgia si accarezzò il ventre.
Il giorno dopo sotto la tettoia di mabati c’erano un uomo e una donna accucciati accanto ad un secchio.
Nel secchio c’era una vita umana, nel ventre non c’era niente.
Finalmente l’acquazzone parve calmarsi, si vedeva già qualche spicchio di azzurro filtrare tra le nuvole.
Il vento da sud aveva ricominciato a soffiare e si portava via il brutto tempo, mentre il cielo basso cominciava ad alzarsi.
Giorgia aveva la mascella serrata e gli occhi lucidi.
Non aveva detto niente altro, scuoteva solo la testa di tanto in tanto.
Edoardo le teneva il braccio attorno alle spalle e le tirava via i capelli umidi dalle guancie.
Udirono dei passi leggeri alle loro spalle: erano dei ragazzini che li fissavano con curiosità.
Edoardo si alzò di scatto e indicò loro il secchio, quelli si misero a ridere e scapparono via.
Come se fosse un gioco.
“Forse nessuno lo sa. Portiamolo là alle capanne, facciamolo vedere anche a loro.”
Edoardo afferrò il secchio con entrambe le mani e lo sollevò; altre mosche si alzarono ronzando.
“Che schifo!” Sbottò Giorgia cacciandole via.
La gente del villaggio si fece attorno ai due wazungu che avevano i corpi bagnati di pioggia e i volti diversi da prima.
Non sorridevano più, gli occhi avevano delle ombre cupe dentro.
Forse avevano fatto arrabbiare gli spiriti della tettoia?
Giorgia fece segno a qualcuno di avvicinarsi.
“Venite, guardate qui, lo sapevate?”
Avrebbe voluto tirarli per le braccia perché erano reticenti.
Chi guardò dentro il secchio alzò le spalle e fece un passo indietro.
Edoardo chiese di chi fosse figlio, nessuno rispose, neppure le donne accucciate lì nel fango.
Lei allora gli disse:”Portiamolo da un dottore, non vedi che sta morendo?”
Lui arricciò le labbra  e si  guardò intorno indeciso.
“Ma se sua madre torna e non lo trova?” Le bisbigliò.
“Guardalo bene, non ce l’ha più una madre, neanche una capra lascerebbe il suo piccolo così!”
Puzzava già di morte, ma lei lo prese in braccio e gli sfiorò la guancia con la sua fronte fresca e liscia.
Allora lui disse sì, che era la cosa giusta da fare.
Vide la compassione e l’amore negli occhi di sua moglie e  capì che non poteva  tirarsi indietro.
“E’ una bambina Edoardo, guarda …”
Le venne da piangere, si curvò un po’ in avanti per mostrargliela.
Lui si tolse la maglia e restò a torso nudo.
“Dai, avvolgiamola qui dentro. Dammela, fai piano.”
Ne fecero un fagottino, la bimba si contorse e vagì, Giorgia disse che stava soffrendo e, rivolta a quella gente, ringhiò:
“Vergognatevi!”
Chissà se qualcuno capiva la sua lingua.
Una ragazza si fece avanti tra la piccola folla, lei la capiva la lingua dei bianchi.
“Non è della nostra tribù. Qualcuno l’ha abbandonata qui, ma non è una di noi la madre. E’ di fuori.”
Un cucciolo che non appartiene al branco. Abbandonato alla pietà umana di un singolo o all’indifferenza collettiva.
Dipende dall’umore degli spiriti custodi.
“Portiamola in ospedale. Loro non ne vogliono sapere di salvarla.”
Quelli del villaggio non dissero niente quando i due wazungu la caricarono sul taxi; tanto ero solo una randagia, nessuno ne avrebbe sentito la  mancanza, ne avevano già fin troppi di figli da nutrire e curare senza averne una in più che non si sapeva neanche da dove fosse spuntata fuori. I ragazzini presero a giocare con la palla di pezza, gli uomini a raccontarsi le loro storie, le donne a scuotere via la pioggia dalle fronde dei tetti. E tutti gli altri a tirarsi via i pidocchi di dosso.
Il secchio vuoto restò sul sentiero. Una rana ci sbatté contro e lo rovesciò. Quando tutti si furono allontanati arrivò una vecchia che lo prese e se lo portò nella capanna.
Il tassista guardò la creatura nel fagotto e  disse che  conosceva un bravo dottore che aveva una clinica privata e curava i wazungu, era meglio portare lì la piccola.
Loro annuirono, non conoscevano la cittadina e nemmeno gli ospedali. Dovevano fidarsi.
Aveva gli occhietti chiusi, i pugni stretti.
Doveva avere patito fame e freddo per parecchie ore.
Il dottore era un giovane indiano, aveva lo sguardo luminoso e la fronte alta. Quando Giorgia gli mise tra le braccia la piccola lui le chiese dove l’avevano trovata.
“A qualche chilometro da qui, nella foresta.”
“Capisco.”
Raccontò che qualche volta purtroppo succedeva: alcune ragazze andavano a sgravarsi nel bush, poi nascondevano in una buca sotto terra i loro neonati. O li abbandonavano sotto le piante.
“Perché?”
“Perché spesso non possono prendersene cura. Forse la madre di questa bambina era una prostituta o una drogata. Forse neanche la voleva.”
Era una spiegazione agghiacciante, a Giorgia si chiuse il ventre in un crampo doloroso.
Edoardo le appoggiò la mano tiepida sulla nuca.
Il dottore visitò la bimba e non parlò.
Loro si misero a sedere sopra una panca, mano nella mano.
Lei avrebbe voluto fargli mille domande: quanti giorni ha? Che cosa ha? E’ grave? Guarirà vero dottore?
Però si mordeva le labbra e taceva e lo lasciava fare il suo lavoro.
Poi lui si lavò le mani e chiamò l’infermiera.
Parlarono nella loro lingua; la donna annuì, prese con sé la bimba e sparì dietro una tenda.
Si udì dell’acqua che scorreva e un vagito leggero come un soffio.
“Non so se ce la farà. Ha bisogno di essere curata bene, ce ne occupiamo noi.”
Marito e moglie si guardarono.
“Allora la lasciamo qui con lei dottore?” Chiese Giorgia titubante.
“Certamente. Voleva forse portarla in hotel?”
Lei scosse la testa, ma forse nel suo intimo era proprio quello che desiderava.
“Tornate domani mattina. Vediamo come trascorre la notte, se sopravvive.”
Le venne la pelle d’oca sentendo le ultime parole. Certo che doveva sopravvivere! L’avevano trovata per salvarla, non per vederla morire!
Ma tenne per sé i suoi pensieri.
Si fecero riportare in hotel e si gettarono sotto una doccia calda e lunga. Poi si rannicchiarono l’uno contro l’altra sul divano in terrazza.
“Non hai mangiato niente tutto il giorno.”
“Neanche tu.”
“Io non ho fame.”
“Neppure io.”
Passarono lunghi minuti in silenzio.
Aveva ripreso a piovigginare, sentivano l’umido sulla pelle, tra le dita.
La spiaggia era deserta. Le chiome delle palme ondeggiavano al vento.
Il mare aveva lo stesso colore grigio del cielo.
“Che schifo.” Disse lei.
Lui sapeva a cosa si riferiva.
“Succede anche da noi, lo sai. Lo leggiamo spesso sui giornali: bambini gettati nei cassonetti, nei fiumi … succede dappertutto.”
Figli buttati al niente.
Sangue e cuore ripudiati.
“Che schifo.” Ripeté lei e gli appoggiò la testa sulle gambe.
Pensò che non era affatto giusto: lei desiderava un bambino più di ogni altra cosa al mondo e una donna aveva appena gettato via il suo come fosse immondizia. Era una cosa assurda.
“Non mi piace questo mondo, neanche un po’, sai?”
“Neanche a me Giorgia mia, facciamo qualcosa per migliorarlo? Una piccola cosa, eh?”
“Sì amore mio.” E gli abbracciò le ginocchia.
Dormirono fino a che venne buio.
Qualche stella cominciò a luccicare.
Sentirono la musica che annunciava la cena servita al ristorante, ma non avevano voglia di vestirsi  e scendere in sala con tutti gli altri e raccontare quello che era successo la mattina nella foresta.
Volevano tenere per sé quella esperienza cruda e preziosa al tempo stesso e non trasformarla in argomento di conversazione da pasto. Si fecero portare in camera della frutta e del riso e guardarono la tv fino a tardi.
“E se non l’avessimo trovata noi?”
“Ci ho pensato anche io.”
“Quelli del villaggio non avrebbero fatto niente, hai visto? Neanche si erano accorti di lei.”
“Forse uno dei ragazzini l’avrebbe trovata e portata a casa.”
“E poi?”
“Non lo so Giorgia. Non lo so. Come faccio a sapere cosa passa per la testa di questa gente?”
Lei sospirò, poi disse con amarezza che se non avesse smesso di piovere loro non ci sarebbero mai andati nella foresta la mattina.
“Adesso smettila per favore. L’abbiamo trovata, siamo arrivati in tempo e dobbiamo essere solo felici per questo. Va bene?”
Le sollevò il mento con la punta delle dita e la guardò  negli occhi.
Notò che aveva pianto senza singhiozzi. Le baciò le ciglia umide e se la strinse di più al cuore.
Spensero le luci, tirarono le tende.
La stanza sull’oceano si chiuse al mondo.
Quando li vide entrare nel suo ambulatorio la mattina seguente il dottore li accolse con un sorriso.
“E’ viva?” Gli chiese Edoardo fiducioso.
“E’ viva e sta meglio. Venite di qua.”
Li portò dietro la tenda, dove c’era un lettino e dentro la bimba.
Era stata lavata e vestita con un body bianco. Era minuscola, dormiva serena.
Giorgia avvicinò il volto alla sua testolina e la baciò delicatamente.
Non sapeva più di morte, sapeva di buono.
E sentì i propri nervi tesi rilassarsi.
“Guardala Edo, non sembra un bocciolo ?”
Lui annuì e le sfiorò i piedini nudi.
Tornarono ogni giorno alla clinica, più volte al giorno.
Ogni volta il dottore era ottimista e potevano constatare coi loro occhi che la bimba stava sempre meglio.
Rinunciarono al safari per poter pagare le spese mediche e per non abbandonarla. Ma le giornate trascorrevano veloci e la domenica mattina avrebbero dovuto prendere il volo per tornare in Italia.
“Non so se ce la faccio a lasciarla qui.”
Gli disse Giorgia mentre passeggiavano sulla spiaggia la mattina presto.
Era bassa marea e si tenevano per mano.
Qualche granchio zigzagava in diagonale da un buco all’altro.
“Cosa pensavi di fare?”
“Penserai che è una pazzia, ma vorrei portarla via con noi.”
“Non credo sia così semplice sai? Non la metti in valigia e la imbarchi sull’aereo.”
“Lo so. Le cose importanti non sono mai facili.”
Ne avevano parlato qualche volta in passato di adottare un bambino, ma poi quando si doveva arrivare al dunque si erano sempre tirati indietro. Subentrava l’indecisione, l’insicurezza, e la speranza che magari un bimbo loro sarebbe arrivato  prima o poi.
I medici che li avevano visitati dicevano che era tutto a posto, bastava insistere e non angosciarsi. Però erano già trascorsi molti anni.
E all’improvviso era arrivata lei: gracile come uno scricciolo.
Era stata destinata a loro? Affinché la trovassero una mattina dentro un secchio, le salvassero la vita e se ne prendessero cura come una figlia? Giorgia se lo chiedeva in continuazione.
“Adottiamola noi.” Gli disse fermandosi di colpo e guardandolo dritto negli occhi.
“Ma tesoro, io …” Non seppe cosa risponderle.
Sospirò e si guardò i piedi sporchi di sabbia chiara.
“Se lo facciamo dobbiamo farlo in due. E’ una cosa troppo grande per me da sola. Ho bisogno di te Edoardo. Ti prego pensaci bene prima di dirmi no.”
Giorgia si tuffò in mare lasciandolo lì seduto sulla sabbia a riflettere.
Raccogliere un essere umano dalla strada, salvargli la vita e restituirgli la dignità. Amarlo, allevarlo, educarlo ai valori in cui si crede.
Pensò a questo e ad altro mentre osservava la sua compagna per sempre nuotare tra le onde lunghe.
Edoardo non la deluse nemmeno stavolta, l’amava troppo e pure lui aveva a cuore il destino del piccolo bocciolo.
Quando  tornò a riva, col fiato grosso e le goccioline d’acqua tra le ciglia  l’abbracciò e le disse sì.
“Sarà il nostro angelo.”
“Saremo una splendida famiglia.”
Parlarono della loro intenzione al dottore e lo videro annuire contento.
“Credo di averlo capito dal primo momento.” Disse appoggiando le sue mani sopra le loro, “L’adozione non sarà facile né immediata, però io posso aiutarvi, l’ho già fatto in passato con altri due bambini.”
Edoardo intrecciò le sue dita a quelle di Giorgia e disse che era la cosa che desideravano fare e non si sarebbero tirati indietro di fronte alle difficoltà burocratiche ed economiche.
Giorgia cullò a lungo la bimba prima di salutarla. Le parlò e le disse tante cose perché sapeva che col cuore le avrebbe capite.
“Non sei più sola, lo sai vero? Adesso ci siamo io e papà. A presto.” Erano gli ultimi minuti insieme. Se la tenne addosso sulla pelle del collo e del petto per trattenere il suo profumo di infanzia.
Si imbarcarono sull’aereo sapendo che sarebbero tornati in Kenya prima possibile, per continuare ciò che avevano appena cominciato: la più grande e bella avventura della loro vita insieme.
La piccola stava bene  ed era in mani sicure. Giorgia teneva tra le dita una fotografia di lei avvolta in un lenzuolo colorato e una cuffia rossa sulla testa pelata. Edoardo le disse che sembrava un folletto dei boschi e scoppiarono a ridere.
Dietro la foto c’era scritto un nome: Zawadi, che in lingua swahili significa dono. Lo avevano scelto per la loro bambina.
“A cosa pensi?” Le chiese accarezzandole i capelli.
“Che stiamo facendo una piccola cosa per migliorare questo mondo, vero?”
“Una grande cosa, tesoro.”
Mentre l’aereo puntava dritto verso le nuvole, laggiù le chiome delle palme diventavano più piccole e finivano col mescolarsi a tutto il resto nel verde della grande pianura africana.
Edoardo e Giorgia chiusero gli occhi, intrecciarono le dita e non smisero di sorridere.

 

TAGS: ZawadiAdozioni Kenya

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