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"L'uomo in catene", film-progetto in Kenya dell'italiano Grassi

Una storia vera dell'entroterra di Malindi tra medicina e stregoneria

13-06-2020 di Freddie del Curatolo

Ancora oggi la costa del Kenya, dove la civiltà per tanti versi è calata come una mannaia su tradizioni secolari che non hanno mai tenuto conto degli eventi storici, dalla rivoluzione industriale alla bomba atomica, dalla scoperta della pennicillina alle innovazioni tecnologiche, presenta dei lati nascosti.
A volte inquietanti, spesso avvolti da aloni di magia e mistero ma profondi e fondamentali per spiegare risvolti ancestrali della mente umana.
Il ricercatore e documentarista italiano Simone Grassi si occupa da anni di queste pieghe nascoste e della salvaguardia di tradizioni e costumi dell’etnia Mijikenda.
Dopo essersi occupato della stregoneria buona e di chi lotta per la sopravvivenza della cultura Mijikenda e aver realizzato il documentario “Kyuye Uye, The Magic Come Back” con la collaborazione della Malindi District Cultural Association, ha da poco terminato la realizzazione di un secondo interessantissimo film dal titolo “Changawa, l’uomo in catene”.
Si tratta di una storia vera che Simone ha scoperto già durante le riprese di “Kyuye Uye” e che lo ha letteralmente catturato. Changawa è un uomo di mezza età che vive nell’entroterra di Malindi ed è stato tenuto per anni in catene dai parenti per evitare che la sua schizofrenia degenerasse in autolesionismo o potesse essere pericoloso per gli altri.
Da una situazione a prima vista aberrante e disumana, il ricercatore ligure si è addentrato nei veri motivi di questa decisione che è stata di buon grado accettata anche dallo stesso Changawa.
Con l’aiuto di mganga (i curatori tradizionali, “stregoni” della magia bianca Mijikenda) e di divinatrici, oltre che di operatori socio-sanitari, Simone è tornato indietro nel tempo e allo stesso tempo ha costruito un documento interattivo lungo otto anni che è diventato la cura stessa per l’uomo in catene che piano piano accederà a cure moderne e non più solo tradizionali e alla fine del film tornerà in società, anche se non definitivamente.
Con orgoglio, possiamo affermare che abbiamo introdotto noi Simone alla cultura Mijikenda e lo abbiamo messo in contatto con MADCA. Il poeta Kazungu Wa Hawerisa e il coordinatore Emmanuel Munyaya sono da tempo suoi inseparabili collaboratori. Così racconta l’incontro con Changawa.
"In quel periodo ci muovevamo nei villaggi della Contea di Kilifi per documentare storie interessanti per l’archivio dei MADCA. Un giorno eravamo a girare in un villaggio vicino a Baricho, dove dovevano intervistare il figlio di Kahindi wa Kadzomba, un influente e leggendario cacciatore di streghe scomparso qualche anno prima. Alla fine della giornata, mentre ci preparavamo a tornare a Malindi, ho sentito un rumore metallico provenire da una capanna vicina. Istintivamente mi avvicinai e da una finestrella di legno vidi un uomo seduto sul pavimento, con una pesante catena di ferro avvolta intorno ad una gamba. Fu uno shock, ma dopo aver chiesto mi resi conto che tutti nella zona erano al corrente della storia di Changawa e conoscevano i perché di quella situazione. Per via del suo precoce talento, era consideravato un predestinato, meritevole di appartenere al gruppo degli autentici guaritori tradizionali come suo padre. Forse proprio per il suo essere “avanti” sono sopraggiunti gravi problemi mentali. Da qui, complici anche credenze locali, era finito in quelle miserabili condizioni".
Dal mattino seguente, Simone e i suoi assistenti si sono dedicati per tutto questo tempo alla sua storia e alla sua salute. Alternando le sedute e le riprese con numerosi viaggi in Italia, Simone si è reso conto di essere impegnato in qualcosa di più di una semplice testimonianza.
Intervistando guaritori, medium ed indovini ed ampliando le sue conoscenze in campo psichiatrico, consultandosi anche con esperti antropologi che hanno analizzato situazioni simili nel Continente Africano, Simone ha coltivato l’idea che i problemi mentali di Changawa fossero più di natura spirituale che psichica.
“Da semplice osservatore con la macchina da presa  - ammette Simone - ero coinvolto totalmente nella vicenda ma avevo bisogno del parere di esperti del settore. La persona più autorevole in questo capo è il professor Charles Newton, uno dei migliori ricercatori sulla salute mentale con grande esperienza d’Africa. Gli abbiamo spiegato cosa stavamo facendo a Malindi e lui si è interessato alla storia".
Così, tre anni fa, alle terapie tradizionali sono state affiancate cure di farmaci, con inevitabili effetti collaterali iniziali e difficoltà della famiglia a sostenere spese mediche solo in parte rimborsabili. Tra interruzioni, miglioramenti e ricadute, Changawa è ancora in terapia e comunque spesso viene rimesso in catene.
“Le catene vengono riconosciute da lui stesso come metodo estremo ma a volte indispensabile per proteggere lui stesso oltre che la sua famiglia – spiega Simone – chi vedrà il film capirà che in questa storia non c’è un lieto fine, né si può accusare la sua gente di violare i diritti umani. E’ semplicemente la realtà. Una realtà che, raccontata, ha permesso di sollevare molte domande”.
E ha permesso anche di trasformare il documentario in un progetto coordinato dal Kenya Medical Research Institute che ha ottenuto una sovvenzione per avviare una campagna di sensibilizzazione sulla schizofrenia nella Contea di Kilifi, dato che quello di Changawa, seppur estremo, non è l’unico caso. Il risultato è stata una collaborazione tra Kemri, il Documentary Institute of Eastern Africa e Madca che hanno lavorato insieme per migliorare le conoscenze sulle malattie mentali e ridurre i pregiudizi nei confronti delle persone con malattie mentali, oltre a incoraggiare i pazienti a cercare assistenza sanitaria, mettendo in contatto e non in conflitto la medicina moderna e quella tradizionale. Lo slogan della campagna di sensibilizzazione è “Difu Simo”, che in dialetto giriama significa “liberarsi”.
Personalmente, abbiamo incontrato Changawa a Malindi un anno fa ed il suo sguardo provvisoriamente sereno ci ha toccato il cuore. Uno come Changawa non si dimentica, perché fa parte delle nostre origini, della nostra anima, di qualcosa che langue ovunque, non solo nella “culla dell’umanità”, in fondo al nostro inconscio.

 

TAGS: italiani kenyafilm kenyamadca

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