EDITORIALE
12-09-2024 di Freddie del Curatolo
Lo sciopero generale dei lavoratori dell’aeroporto internazionale Jomo Kenyatta di Nairobi non è stato un episodio imprevisto ed improvviso, ma qualcosa di annunciato e nell’aria da più di un mese e già rinviato due volte, in attesa di un confronto con il governo da parte del sindacato KAWU (Kenya Aviation Workers Union. Il sindacato rappresenta circa 16 mila dipendenti aeroportuali, di cui ben 10 mila sono impiegati a Nairobi.
Al di là delle facili ironie di chi conosce certi costumi dell'Africa, non si tratta degli ufficiali dell'immigrazione, degli agenti che controllano i bagagli e della sicurezza, ma soprattutto di chi sta dietro le quinte e lavora al funzionamento dello scalo: dai tecnici agli ingegneri, dagli addetti della torre di controllo a quelli delle piste, da tutto il personale fino all'ultima donna delle pulizie.
DIALOGO E RISPETTO
Lo sciopero non ha finalità di contrattazione di nuovi stipendi, o proteste per condizioni di lavoro o altro, ma è emerso come “extrema ratio” dei sindacati per essere coinvolti nelle discussioni relative al ventilato contratto che sarebbe stato firmato dal governo con l’azienda indiana Adani Group, alla quale sarebbe stato ceduto in gestione per 30 anni lo scalo della capitale keniana, in cambio di un robusto conguaglio e di un progetto di espansione e ammodernamento della struttura. In cambio, oltre agli introiti dello stesso aerporto, delle tasse, dei parcheggi e degli affitti, Adani avrebbe in concessione anche terreni attigui per sviluppare progetti edilizi e residenziali.
In linea di massima, per un Paese con i debiti fino al collo non ci sarebbe nulla di strano e purtroppo ormai neanche nulla di male a cedere strutture pubbliche, affinché possano funzionare meglio, ma la domanda dei lavoratori è pertinente, avendo letto i termini del contratto per la cui stesura non sono stati fatti nemmeno sedere al tavolo delle trattative, né per la bozza chiamati ad una partecipazione pubblica, come peraltro sarebbe dovuto accadere con i cittadini tutti.
RISCHIO DI LICENZIAMENTI
Nel contratto Adani si riserva di licenziare dipendenti, ridiscutere termini e modalità dei contratti, assumere personale straniero ed altro.
Il timore di licenziamenti di massa è tangibile e l’operato dell’azienda, a giudicare dalla gestione degli aeroporti indiani, compreso quello di Mumbai, evidentemente non convince i sindacati.
Né convincono le finalità a scopo di lucro di un’azienda privata rispetto al servizio pubblico, tanto più del colosso indiano, da tempo sotto il torchio della magistratura nel suo paese.
Insomma, una situazione che se appare inevitabile, è stata gestita nella maniera peggiore, non coinvolgendo affatto i lavoratori, ma neanche troppo l’opinione pubblica. Tanto è vero che l’Alta Corte del Kenya si è già mossa, su richiesta dell’ordine degli avvocati (LSK) e di organizzazione per i diritti umani, bloccando temporaneamente l’accordo che se effettivamente già firmato, come i media affermano, porterebbe lo Stato non solo a rinunciare ad introiti sicuri (che dove andranno a finire?) ma a dover pagare salate penali ad Adani Group.
MANCANZA DI DIALOGO
Per questo urge un dialogo immediato tra le due parti e più disponibilità del governo a sentire la voce del suo popolo. Cosa che è stata fatta sospendendo la legge finanziaria, dopo le proteste di piazza dei giovani, lo scorso giugno. Da una parte, una grande vittoria della democrazia, dall’altra un precedente pericoloso per il governo: ora chiunque, legittimamente o meno, si sente autorizzato a scendere in piazza o incrociare le braccia per reclamare i propri presunti diritti e questo rischia di bloccare a più riprese la nazione, già alle prese con una crisi di proporzioni preoccupanti.
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