Editoriali

IL NUOVO KENYA

La primavera di Malika e della 'generazione Z' in Kenya

Dalle pietre ai selfie, la protesta dei giovani ha colpito nel segno

20-06-2024 di Freddie del Curatolo

Malika ha 24 anni, fino a qualche mese fa aveva un lavoro fisso: contabile in un’azienda che produce arredamenti per uffici. Uno stipendio utile a prendere un appartamento non lontano dalla zona industriale di Nairobi, dove lavora, in condivisione con altre due coetanee, una disegnatrice professionale e una barista di buon cabotaggio. Per lei che è emigrata solo due anni fa nella capitale da Vihiga, cittadina del nord ovest, era la vita ideale: amiche e amici, l’attesa del sabato sera per la discoteca, la domenica il jogging detox nella foresta cittadina di Karura e a fine mese, con lo stipendio in mano, caccia a saldi e occasioni nei centri commerciali. Sembra un’ordinaria storia italiana, invece è il Kenya di oggi, quello della “generazione Z” che si sta dando da fare per vivere come i coetanei di buona parte del mondo fanno.
Quel mondo che è facilissimo scorrere sul telefonino attraverso instagram, tik-tok e i blog degli influencer.
Quel mondo che, appena è stato mostrato loro, rischia di diventare ogni giorno più difficile.
Malika ha perso il lavoro ma non dispera, è capace e volonterosa, ne troverà sicuramente un altro.


Nel frattempo però il costo della vita aumenta e lo spauracchio di nuove tasse sui beni di primo consumo è decisamente troppo.
L’inquietudine si diffonde sui social network, si organizza la protesta: tutti davanti al parlamento per far sentire la propria voce contro la legge finanziaria.
Questa volta però non ci saranno i disperati delle baraccopoli, i provocatori di professione e gli sbandati di strada che interpretano il dissenso solo con la violenza. A sfilare pacificamente, armati solo di slogan e cartelli e dei loro telefonini, ci sono tante ragazze come Malika ed altri giovani che sognano un futuro migliore, magari non per tutti, ma almeno per loro che pensano di meritarselo.
Non hanno utopie, ma desideri. Non hanno fame, ma paura di tornare al solo piatto di polenta al giorno.
Non sono vestiti di stracci, indossano capi d’abbigliamento delle catene in franchising come Woolworth e Waikiki. Un quotidiano locale, giocando con la rima inglese, titola: “From stones to smartphones”, dalle pietre ai telefonini. Quando ero ragazzo, studiavo al liceo classico a Milano e, come tanti giovani borghesi, sognavo un mondo migliore partendo dai massimi sistemi, mia nonna mi diceva “vai, vai in piazza a protestare. Vacci tu, che i poveri non possono permetterselo”.


Forse i politici keniani si aspettavano i tiratori di pietre e la polizia era pronta ai fumogeni contro i disgraziati.
La polizia si è trovata davanti invece l’esercito dei selfie, le segretarie d’azienda e i giovani creativi della city.
Tutt’altro che brutti sporchi e cattivi, non sono aizzati dall’opposizione e non suggeriscono altri alibi per bollarli come un inevitabile effetto collaterale della democrazia. Tra i duecento fermati, tanto Kenya del futuro, non i cosiddetti "ultimi" che fanno compassione a tutti, finchè non si incazzano.
Sarà una coincidenza che, ancora prima della riunione in parlamento per mettere ai voti la nuova finanziaria, il governo ha deciso di eliminare le tasse più controverse?
Il Kenya delle divisioni abissali, degli equilibri tribali e dei conflitti ancestrali non ha mai avuto le mezze stagioni, ma se mai dovesse spuntare una nuova primavera nel mondo, l’unica possibile (forse) è quella di Malika e dei suoi coetanei di Nairobi.  

(Photo: Andrew Kasuku ASSOCIATED PRESS)

TAGS: protesteselfiegiovaninairobi

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