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RACCONTI

Storie Malindine: "Il Sappe e la chitarra di Bongusto"

Terza puntata della saga di Ric Giambo nel Kenya italiano

25-10-2020 di Marco "Sbringo" Bigi

Di una cosa ormai ero certo: il Sappe non avrebbe mai finito di sorprendermi.
Non tanto perché mi aveva invitato a cenare nello storico ristorante "The Old Man and the Sea", promettendo che, per una volta, avrebbe pagato lui - che anche solo così era una notizia da caratteri cubitali - ma perché mi aveva promesso che avrei assistito all'epilogo di una giornata che già aveva riempito il mio taccuino degli appunti.
Restai incantato sorseggiando il terzo calice di Drostdy Hof e ascoltando la sua voce che raccontava la lunga storia di quel famoso locale che si trovava nel mezzo della Malindi araba sul lungomare di Shella. Il mio sguardo vagava tra la penombra delle suggestive nicchie separate da porte arabeggianti, dai soffitti bassi e con le pareti disseminate di reti da pesca, teli multicolori e quadri raffiguranti mappe nautiche e i "Dhow", le tipiche imbarcazioni locali.
L'anziano cameriere africano, che aveva sicuramente ereditato dagli Inglesi una compostezza dignitosa e un ottimo accento, sfoggiava uno sgualcito ma elegante completo nero e si muoveva con destrezza negli spazi angusti del ristorante.
Sistemò con cura sul nostro tavolo due piccoli taglieri di legno sui quali troneggiava una rosa, formata da petali di sashimi di tonno, affiancata da una conchiglia che conteneva la salsa di soia e una scodellina di un'altra sconosciuta salsa. Il tutto era decorato da alcune fette di lime e da carote grattugiate.
«Preparati a godere, e anche, più tardi, a gustare una grigliata di pesce come non l'hai mai assaggiata prima. Buon appetito!» mi disse il Sappe già armato di forchetta e coltello.
Giustappunto mentre entravo nel ristorante, avevo notato che un cuoco, in perfetta divisa bianca col cappello d'ordinanza, attizzava il fuoco di una griglia nell'angolo del piccolo dehors che separa il ristorante dalla strada.

L'epilogo promesso dal Sappe passò in secondo piano tra il sapore del tonno che si scioglieva in bocca e il vino che cominciava a fare il suo effetto. Non potei fare però a meno di notare che il mio commensale, cercando di non farsi notare, lanciava a intervalli regolari un'occhiata verso il tavolo dell'unico altro cliente del ristorante, che, dalla parte opposta della sala, parlava al telefono in italiano e sorseggiava del vino attendendo la sua cena. Era impegnato in una concitata conversazione ad alta voce, decisamente fuori luogo per l'atmosfera di quel ristorante.
Brizzolato, con una camicia stile safari, sembrava uno dei tanti imprenditori che da sempre apparivano a Malindi come meteore, per poi scomparire in fretta. A dire il vero notai, all'ennesima occhiata lanciata dal Sappe, un lampo quasi mefistofelico...
Il tintinnio di una collana di conchiglie appese alla porta annunciò l'ingresso di un ragazzone africano, con gli occhi vispi, gli zigomi pronunciati e un fisico atletico. Era vestito in modo sorprendentemente curato: dalle scarpe di pelle nera alla cravatta, non assomigliava per nulla ai suoi coetanei di Malindi. Per questo motivo immaginai che potesse essere il rampollo di una ricca famiglia di Nairobi.
Si guardò intorno, scelse un tavolo basso circondato da divani colmi di cuscini dai colori caldi, che si trovava a metà strada tra noi e il brizzolato e, prima di sedersi, appoggiò con cura una custodia per chitarra nera su un divano.
Con tutta la calma che solo l'Africa può concedere, arrivò il cameriere con il menù in mano, che il ragazzo prese in mano e studiò attentamente. Non so perché ma ebbi la sensazione che ci fosse stato un brevissimo sguardo d'intesa tra il Sappe e il ragazzone, ma da come, si ignorarono in seguito, pensai di essermi sbagliato.
L'arrivo di un enorme piatto di portata, che fu appoggiato in mezzo alla tavola, attirò completamente la mia attenzione: red snapper (cugino del dentice), calamari, aragosta, polpo con contorno di patate, verdure e riso basmati. Fu come una sinfonia gastronomica che soddisfò il palato quanto lo erano stati l'occhio e il naso e, quando il cameriere portò la seconda bottiglia, mi lasciai andare del tutto e dissi alzando il calice proponendo l'ennesimo brindisi: «Pensa che c'è gente che dice di annoiarsi qui a Malindi, ma con te, mio caro, è impossibile!»
Alludevo ovviamente alle impressioni che mi aveva lasciato quell'intensa giornata, che, a quanto annunciato dal mio mentore, non era ancora finita.

--

Il tutto era cominciato, come al solito, al bar alle dieci.
Era da diverso tempo che desideravo visitare una delle numerose strutture keniote, fondate da Onlus o da privati, che ospitano bambini che altrimenti sarebbero lasciati allo sbando e quella mattina io e il Sappe c’eravamo dati appuntamento per andare a visitare la scuola di Mama Karembo che si trova in un posto che non saprei ritrovare, dalle parti di Marafa, a nord di Malindi.
Avvertivo, dalla dolcezza e con cui il Sappe raccontava quanto Mama Karembo fosse un essere speciale, che il mio mentore provava nei suoi confronti un'enorme dedizione. Arrivò addirittura a paragonarla a un angelo sceso dal cielo. Questa inaspettata versione del Sappe senza ironia né sarcasmo fu una grande sorpresa per me.
«Sei pronto per versare qualche lacrimuccia, amico mio? Allora andiamo! Hai fatto benzina? Hai controllato la pressione delle gomme?»
«Tranquillo - risposi - fammi finire il caffè e si parte».
Passammo da un negozietto di quelli che non avevo mai notato sulla Tsavo Road che vendeva a prezzi stracciati tutto quello che ci occorreva: scatoloni di biscotti, pacchi di farina, sacchetti di fagioli, quaderni e penne. «Caramelle no! - disse il Sappe perentoriamente - quelle fanno male ai denti e i nostri bambini non hanno modo di andare dal dentista». Mentre pensavo che quel "nostri" fosse la conferma definitiva di quanto il Sappe fosse affezionato ai bimbi, mi apprestai a pagare ormai rassegnato dal fatto che il compito di estrarre il portafoglio fosse solo mio. Ma in quel caso lo feci volentieri.

Ci spingemmo verso nord, varcammo il ponte sopra il sonnolento fiume Sabaki, sorridemmo al militare che ci controllò i passaporti e proseguimmo seguendo l'ottima strada asfaltata.
Basta allontanarsi di qualche chilometro dalla conosciuta Malindi per trovarsi immersi in un'Africa variopinta e sorridente, fatta di mame che vendono frutta su bancarelle improvvisate ai lati della strada. Capre, mucche e anche asini che brucano, colline che potrebbero essere state rubate alla Maremma, se non fosse per quella vegetazione rigogliosa e per i baobab. Un tuk-tuk, una bicicletta e poi un'intera umanità che si sposta a piedi percorrendo un sentiero che si è formato parallelamente alla strada, fermandosi a guardarci passare come se fosse la prima volta che vedono un'automobile con due bianchi a bordo.
E infine ecco laggiù, da dietro l'ultima collina, fare capolino il maestoso Oceano Indiano con le sue mille tonalità di blu e un'enorme spiaggia dorata che si stende infinita.
Arrivati in prossimità delle saline, abbandonammo la strada principale e girammo a sinistra, proseguendo in una strada sterrata le cui condizioni misero a dura prova gli ammortizzatori del povero Pajero. Quel piccolo fuoristrada aveva, probabilmente, visto tempi migliori nel secolo scorso ma se la cavava ancora. Nel frattempo, la conversazione con il dotto Sappe, che ormai avevo eletto a mio Maestro - non solo d'Africa, ma anche di Vita - rimbalzava in ogni direzione come una palla in un biliardo. Si parlava degli effetti astrologici del pianeta Mercurio quando il suo moto è retrogrado, del ritmo dell'endecasillabo in poesia, della profondità di campo di un obbiettivo fotografico, del Mellotron come strumento musicale a tastiera usato dalle band di Progressive Rock negli anni Ottanta. Non c'era argomento che lo trovasse impreparato. E poi giù a sparar cazzate e a ridere, mentre il sole raggiungeva lo zenit, l'aria calda e umida entrava copiosa dai finestrini ed io facevo lo slalom tra le buche lungo la strada sterrata.
«Rallenta, dovrebbe essere qui», disse a un certo punto il Sappe sporgendosi in avanti e, poco dopo, mi disse di svoltare a destra laddove un cartello un po’ storto portava la scritta: “Amani na Elimu Orphanage”.
Come se mi avesse letto nel pensiero, il Sappe declamò: «Orfanotrofio Pace ed Educazione - rimase un secondo a pensare, e continuò - che poi non sono proprio tutti orfani, ma è come se lo fossero a considerare le condizioni in cui versano le loro madri».
«E i padri?» chiesi.
«Ah, molti di loro manco sanno di avere un figlio, ma anche chi lo sa spesso è uccel di bosco».
Osservando l’abbondanza di erba che nascondeva i solchi lasciati dal passaggio dell’ultima auto, dissi: «Che traffico su questa tangenziale!» provocando un sorriso al Sappe.
Dopo l’ultima curva dovetti rallentare perché un’orda di bimbetti, tutti - maschi e femmine - con la testa rasata e un grembiule rosa, ci corse incontro urlando “Gualtiero! Gualtiero!”
«Gualtiero?» chiesi incredulo.
«Credo che questo, insieme all’ufficio dell’immigrazione siano gli unici posti in Kenya dove si conosce il mio vero nome. Ma tu continua a chiamarmi Sappe... lo preferisco».
Sempre inseguito dai bambini, parcheggiai il Pajero di fronte a una spartana costruzione di mattoni a vista e di tetti in lamiera a un solo piano, che si sviluppava a ferro di cavallo intorno a un prato. S’intuiva che da una parte erano previste le aule della scuola, mentre la parte restante sembrava essere destinata a dormitorio e a convitto.
Scendendo dall'auto notai che nella parte a sinistra dell'edificio s’intravedevano, attraverso le aperture nei muri (che potremmo definire progetti di finestre) i banchi e le lavagne tipici delle aule scolastiche, mentre le zone restanti sembravano essere destinate a dormitorio e a convitto.
Ovviamente il nostro arrivo aveva interrotto le lezioni dando inizio a un'improvvisata festa. Canti, balli, urla di gioia: ero con gli occhi sgranati e ubriacato dall'entusiasmo di questa moltitudine di bambini. Dai varchi senza porte delle aule facevano capolino anche alcune giovani ragazze, probabilmente le insegnanti della scuola e, tra loro, emerse, nelle sue abbondanti forme fasciate dal Kanga (il tipico pareo coloratissimo di queste parti), una "mama" dal viso dolcissimo, benché segnato dagli anni, e dalla camminata leggiadra che corse verso il Sappe per stringerlo in un lungo abbraccio stritolante.
Quando la donna si diresse verso di me, non feci in tempo a dire «Mama Karembo, I suppose...» perché pure io fui soffocato da uno degli abbracci più coinvolgenti che avessi mai ricevuto.
Dopo che i bambini ebbero cantato in coro l'immancabile "Jambo Bwana" (brano che detesto per quanto sia inflazionato ma che in quella situazione fu meraviglioso) qualcuno percosse un pentolone con un mestolo e, a quel segnale, tutti quanti si misero in fila ordinatamente per lavarsi le mani al lavatoio prima di entrare nella sala mensa, ove ci recammo anche noi per prendere posto al tavolo dei "grandi". Il menù era tipico della costa: sima (polenta), maragwe (fagioli) e mchicha (una verdura cotta che assomiglia agli spinaci).
Conoscevo abbastanza Gualtiero... pardon, il Sappe per rendermi conto che la giovialità che tentava di esternare era offuscata da un qualcosa che lo turbava, così come il sorriso di Karembo, largo e sincero, aveva in sé al tempo stesso una grande profondità e un velo di tristezza. Come al solito, mi chiedevo quanto le mie sensazioni fossero frutto della mia fantasia, fu così che decisi di non pensarci più e di godermi i fagioli che erano buonissimi.
Juma, una giovane insegnante dagli occhi vispi, il naso largo e una foresta di ricci neri in testa, si offrì di farmi da cicerone mentre il mio amico e Karembo avevano tirato fuori fogli e una calcolatrice trasformando la tavola sparecchiata in un ufficio.
Accettai con gioia e iniziammo il tour visitando la struttura che, dalle aule al dormitorio, assomigliava al risultato di un cantiere edile che ha interrotto i lavori a metà. Pezzi di tetto di lamiera attraverso i quali si vedeva il cielo, alcune aule avevano del terriccio al posto del pavimento, le finestre e le porte non c'erano e i letti del dormitorio erano in piedi per miracolo. Le cucine erano delle stanze vuote e il cibo che avevamo mangiato era stato cucinato su un falò improvvisato fuori dalla porta.
Nonostante tutto questo, Juma mi mostrava ogni cosa con entusiasmo e mi raccontava di come la vita di quei ragazzini fosse migliorata da quando erano lì. Fu così che, come il Sappe aveva predetto, fui pervaso da una grande commozione e dalla riflessione su quanto il luogo di nascita possa rendere diverso il destino di un essere umano.
Quando tornammo in sala mensa, rimasi esterrefatto.
Il Sappe era furente, sembrava che gli uscisse del fumo dal naso e delle saette dagli occhi. Karembo stava cercando di calmarlo carezzandolo amorevolmente sulla spalla.
I saluti, i cori, le manine che facevano ciao, i kwaherini (arrivederci) ci accompagnarono per tutto il vialetto e poi ci ritrovammo soli in macchina, io pensieroso e il Sappe incazzato come non l'avevo mai visto. Continuava a borbottare, a digrignare i denti, a stringere i pugni a guardare fuori dal finestrino. A nulla valevano i miei tentativi di calmarlo mentre guidavo e, quando ripassammo dal posto di blocco del ponte, poco ci mancò che si mangiasse vivo il giovane soldato che ci aveva chiesto i documenti. Il povero ragazzo, sentendo questo Mzungu che gli urlava qualcosa, che io non capivo, in un perfetto swahili, si mise sull'attenti e ci lasciò passare senza fiatare. Ma il Sappe non la smetteva di bofonchiare: «Devo trovare il modo di fargliela pagare a quello stronzo del Rolex!»
«Il Rolex?» chiesi sorpreso.
Finalmente il Sappe si degnò di rispondermi: «Non lo conosco personalmente ma so chi è e lo terrò d'occhio!» disse con fare minaccioso.
«Mi avevano parlato di lui - aggiunse - è uno che si è spacciato per un benefattore pieno di buone intenzioni, ha fondato un'associazione, ha raccolto fondi per aiutare i bambini in difficoltà, ha intortato un po' tutti».
«E poi, che altro oltre, immagino, a portare un Rolex?» lo sollecitai temendo che tornasse nel suo silenzio.
«Niente, è uno che ama il lusso, infatti, appena arrivato, si è piazzato in una delle ville più sontuose di Malindi con un'enorme piscina e un esercito per servitù. Ha comprato il più costoso fuoristrada della scuderia Toyota e pare che i soldi che ha estorto ai donatori si siano fermati lì, in quella villa, gliel'avevo detto a Mama Karembo di non fidarsi...» disse tutto d'un fiato.
Smise di guardare fuori dal finestrino e mi fissò negli occhi «Il terreno dove è stato costruito... anzi dove è stata interrotta la costruzione, per mancanza di fondi, dell'orfanotrofio di Mama Karembo, sta per essere confiscato perché gli ex proprietari non hanno ricevuto il saldo del pagamento promesso dal Rolex. Se non saranno versati entro due giorni 10.000 dollari arriveranno le ruspe» concluse.
Calammo entrambi di nuovo in un rimuginante silenzio finché, arrivati a Malindi, i suoi occhi si illuminarono come se fosse stato folgorato da un'idea, l'espressione mutò da rabbiosa a diabolica. Fece quattro telefonate, parlando in un swahili talmente serrato e spedito che compresi solo  “saa ngapi?” e “sawa sawa”.
Poi mi guardò quasi sollevato ed esclamò: «Lasciami qui».
Scese dalla macchina, si avvicinò al mio finestrino e con un tono di voce più basso mi disse: «Scusa per prima, forse una soluzione c'è. Ci vediamo alle otto e mezzo al Vecchio e il Mare. Puntuale, mi raccomando!» e si allontanò lasciandomi, come spesso accadeva, basito, e dirigendosi verso uno strano bazaar che non avevo mai visto prima.

--

Davanti al piatto ormai vuoto e stordito dal vino alzai l'ennesimo calice brindando a tutti coloro che si chiamano Gualtiero.
«Sappe, chiamami Sappe, quel nome mi evoca sentieri del passato che non voglio ricordare».
«E allora brindo a tutti i Sappe del mondo, compreso un amico che vive in Toscana nelle Colline Metallifere al quale voglio un monte di bene!»
Ero alticcio, ma non abbastanza, poiché riuscivo ad avvertire una strana elettricità nell'aria, come se qualcosa stesse per accadere.
Il brizzolato continuava a parlare al telefono e il ragazzo della chitarra, ormai finita la sua parca cena, si alzò, si toccò le tasche dei pantaloni e scusandosi col cameriere, disse in un ottimo inglese che aveva dimenticato in albergo il portafogli.
Aggiunse che avrebbe lasciato lì la sua preziosa chitarra, appartenuta a un famoso cantante italiano e che sarebbe tornato di lì a poco per saldare il conto.
Il cameriere esitò e volse uno sguardo interrogativo, guarda un po', verso il Sappe che, chiedendomi scusa ("ma che gli ha preso?" pensai), tirò indietro la sedia e si alzò.
Si diresse verso il tavolo del ragazzo, chiedendogli se gentilmente poteva aprire la custodia affinché lui potesse esaminare la chitarra.
La soppesò, lesse l'etichetta, controllò se il manico fosse dritto, eseguì con maestria due accordi, la ripose nella custodia e sentenziò: «Non c'è dubbio, Ric, la riconosco perché ebbi l'occasione di vederla in mano al suo proprietario. Questa è la chitarra della buonanima di Fred Bongusto. A parte l'autografo, la riconosco perché ricordo benissimo che Fred, in vacanza a Malindi, venne nel mio laboratorio di liuteria, che purtroppo ho chiuso da diversi anni, e mi chiese di ripararla perché si era rotta una vite di frizione e la chiave del RE. Infatti guarda qui - sollevò la paletta della chitarra sotto gli occhi del cameriere,  - la vedi questa chiave, questo pirolo? È di osso, osso keniota, la testimonianza del passaggio a Malindi del grande Fred Bongusto e dell’unicità di questo strumento!»
Sì guardò intorno e vide che quattro paia d'occhi lo stavano fissando sbalorditi.
Si rivolse infine al ragazzo «Tu, come ti chiami?»
«Mi chiamo Robin, signore».
«E come fai a essere in possesso di una chitarra così preziosa? Sai che in Italia ci sono collezionisti che sarebbero disposti a pagarla più di ventimila euro?»
«Me la regalò mio nonno in punto di morte, signore».
«Tuo nonno? - fece una pausa come se stesse richiamando alla memoria un nome - si chiamava Adam e suonava il sassofono?»
«Sissignore!»
«Vieni qui, abbracciami! Tuo nonno suonava meravigliosamente, era un mio grande amico e sono felice di conoscere suo nipote!»
Si abbracciarono e il Sappe aggiunse: «Non c'è bisogno che tu corra in albergo a prendere il portafogli, te la offro io la cena, ma stai attento a non lasciarlo più in giro!».
Chiamò il cameriere, chiese il conto di entrambi i tavoli, salutò tutti compreso il brizzolato che aveva smesso di parlare al telefono e che, come me, aveva assistito a bocca aperta alla scena e che ora si era alzato per dare un'occhiata alla chitarra da vicino.
Mentre uscivamo, notai l’italiano intrattenersi con il proprietario del cimelio.
Sembrava aver intavolato una discussione seria.
La curiosità alcolica aggiunse un gradino sotto i miei piedi.
Il Sappe mi afferrò per un braccio e disse: «Dammi le chiavi del Pajero, Ric, mi sa che è meglio che guidi io. Ora andiamo che mi sento stanco. Ti verrò a prendere domattina a un quarto alle dieci per essere puntuali al bar».

--

Il caffè delle dieci al bar è un toccasana per chi ha bevuto un bicchiere di troppo la sera prima.
Guardavo con curiosità il Sappe, fresco come una rosa e con un sorriso beffardo, perché da quando eravamo usciti dal ristorante la sera prima, non aveva proferito più parola ed io pendevo dalle sue labbra.
«Aspetta cinque minuti e capirai tutto» disse laconicamente mentre io lo assillavo di domande: Fred Bongusto, la liuteria, il ragazzo, Mama Karembo... non capivo più se il mal di testa era provocato dal vino o da questa marea di domande senza risposta.
Dopo qualche minuto vidi che lo sguardo del Sappe oltrepassò le mie spalle per salutare qualcuno che stava arrivando, mi voltai per vedere di chi si trattasse ed ecco l'ennesima sorpresa: il ragazzo della chitarra.
«Robin!» esclamai.
«No - disse il Sappe - si chiama Charo ed è il figlio di Mama Karembo».
La mia bocca si spalancò in un'espressione beota.
Charo mi salutò stringendomi la mano sorridendo e mi disse, in un perfetto italiano: «È un piacere conoscerla signor Ric, mi perdoni per non essermi presentato ieri sera, purtroppo il signor Gualtiero per quell'occasione mi aveva vietato di darle confidenza».
Detto questo, consegnò un foglio al Sappe che inforcò gli occhiali, lo esaminò e disse soddisfatto «Diecimila dollari sul conto di tua madre, proprio quello di cui avevamo bisogno!»
Poi si rivolse a me ridendo «Si vede proprio che tu non lo reggi l'alcool, mi sa che hai capito un quarto degli avvenimenti di ieri sera».
Mi spremetti le meningi premendo pollice e indice sul mento.
«Di tutto quello che hai visto e sentito ieri sera l'unica cosa vera è che Fred Bongusto venne veramente a Malindi tanti anni fa. Charo ha recitato ottimamente la parte del nipote di un sassofonista che è esistito ma che non è suo nonno. Sapevo che il Rolex...»
«Il brizzolato!»
«Sì, proprio lui. Come dice quella famosa canzone del bandito? "Ogni uomo ha un vizio che lo farà cadere"... Avevo avuto l'informazione che è un fanatico collezionista di qualsiasi cosa riguardi i cantanti italiani degli anni sessanta, pare che abbia acquistato per 25000 euro il martello che Rita Pavone aveva in mano quando cantava "Datemi un martello"»
«Ma dai, e la storia della liuteria?»
Scoppiò in una fragorosa risata: «Ma quale liuteria, ce la vedi una liuteria a Malindi?»
In effetti a ripensarci era davvero da ridere, mi venne subito in mente lo scassato negozio di strumenti musicali, che aveva resistito per qualche anno al Malindi Complex prima di fallire e il cui nome era una garanzia di professionalità: "Royal Proffesional Sounds" (l'insegna recitava esattamente così con due effe e una esse).
Insomma il Sappe aveva escogitato un piano perfetto, svolto sotto i miei inconsapevoli occhi.
«E la chitarra?»
«Quella l'ho comprata ieri pomeriggio nel negozio dell'usato di Mr. Brown dove mi hai lasciato. Una chitarraccia da trenta dollari con un pirolo diverso da tutti gli altri».

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