SATIRA
12-11-2017 di Freddie del Curatolo
Da mezzo secolo le leggende attorno alle fatidiche malattie africane si moltiplicano, tanto che gli stessi insetti ed animali faticano a stare dietro ai nuovi virus scoperti.
Figuriamoci la medicina, sempre attenta a propinarci una cura rivoluzionaria e miracolosa per sindromi create in laboratorio o virus sepolti da decenni e riesumati grazie a splendide e articolate campagne informative di stampa e media.
Ma la polemica non è di casa in Kenya.
Nel paese in cui basterebbe una guaina di lattice nel posto giusto per debellare la piaga più terribile e diffusa, certe forme virali fanno davvero ridere.
La mosca tse-tse, ad esempio, non è più una minaccia: si aggira ancora per la riserva del Mara ma non è infetta e al massimo insaporisce il tè delle cinque dei pastori masai.
Sono fin troppi invece i turisti e i viaggiatori che si presentano all’Equatore con tatuata sul braccio la vaccinazione per la febbre gialla, di fianco a delfini, farfalle, simboli tribali maori, cuori trafitti, finti bracciali e vere schifezze.
In realtà il governo keniota ha tolto l’obbligatorietà di tale vaccinazione da vent’anni (mentre i tatuaggi sono ancora legali), ma nelle foreste del Monte Elgon vi sono ancora focolari di epidemie (il consiglio sarebbe di non addentrarsi comunque) e le scimmie di Eldoret potrebbero attaccarvela durante un pic-nic, specialmente se non offrite loro un buon Club Sandwich, abbondando di maionese.
Quindi la pericolosità del virus è acclarata.
Ma non è tutto, fosse solo gialla la febbre africana!
Nei campi di funghi prataioli nei pressi di Naivasha è stato scoperto un focolaio di “febbre rosa”, temibile virus che assale gli organi sensibili e trasforma un tranquillo contadino completo di cappello di paglia e aratro, in un trans armato di labbra sensuali e seni gonfiati.
C'è poi la tremenda "febbre verde", malattia influenzata da una moda di nicchia che costringe certi imprenditori che in passato avrebbero speculato insozzando le rive dell'oceano di cemento, a costruire eco-resort e boutique hotel vegani a Mayungu o nel Mida Creek.
Della "febbre nera" abbiamo già parlato ampiamente in passato: ormai non viene più considerata una malattia, perché la sua trasmissione è indubbiamente diversa da tutte le altre.
Uno dei più frequenti e per fortuna passeggeri che quasi tutti gli amanti dell’Africa hanno sperimentato è invece il virus marrone chiaro.
Da sempre la “sciolta” è il segnale che il corpo è conscio di essere arrivato in Africa.
Numerose le giustificazioni che si riescono a formulare durante le ore trascorse a contemplare i “maridadi” del bagno, dalla privilegiata ottica di chi è seduto sulla tazza.
“Sarà il cambio di clima”
“È stata sicuramente la frutta”
“Dovevo lavarmi i denti con l’acqua minerale, magari gassata” e via dicendo.
In realtà la cacarella è un benvenuto che, prima o poi, tutti i frequentatori dell’Equatore, si devono beccare.
O meglio, QUASI tutti.
Infatti c’è una minoranza silenziosa (anche quando va al bagno) ma crescente, che invece è attratta da queste voci lassative riguardo al Kenya. “Il posto ideale per uno stitico!”, pensano i molti che hanno quel problema. È assodato infatti che un individuo normale, dopo aver mangiato una papaia intera, inizia a sentire nel proprio intestino qualcosa di simile al risveglio dell’Etna di qualche anno fa.
Ma sono molte le precauzioni che si può cercare di prendere all’incontrario, per poter godere finalmente di un’evacuazione morbida.
a. Ghiaccio in tutte le sue forme. Particolarmente indicato quello dei locali italiani di Watamu che vi garantiscono “il nostro è fatto con l’acqua bollita, così il 99% dei bacilli muore”.
b. Papaia rossa di Zanzibar senza limone e tiepida di sole (basta anche una foto).
c. Samosas dei chioschi intorno al mercato nuovo, meglio se avvolte in carta di giornale, meglio ancora se il giornale è il Taifa Leo.
d. Gelati confezionati dei venditori ambulanti (quei simpatici carretti con la biciclettina a carillon che vendono mottarelli tanzaniani prima di essere spazzati via da un Tir).
e. Succo di avocado polposo dei bar nella Old Town di Malindi, meglio se raffreddato con cubetti di ghiaccio locale. Oltretutto, se è particolarmente buono, in una camera oscura dopo averlo bevuto potrete esaminare la situazione dei vostri organi interni senza bisogno di radiografia.
f. Latte intero di capra in busta di plastica (raro).
g. Acqua del cocco comperato e aperto per strada (frequente).
Nonostante le numerose possibilità, c’è chi non è ancora riuscito a risolvere i suoi problemi, ma anche chi ha notato leggeri miglioramenti. Tra quelli che invece problemi non ne hanno, ma sono semplicemente golosi e noncuranti, c’è chi è passato in pochissimo tempo a (si perdoni il francesismo) cagare quotidianamente liquido e talvolta riesce con successo a riciclare il passion juice.
Sono persone rilassate che però improvvisamente vanno di fretta.
Stanno magari sedute al tavolo del bar insieme a voi a parlare dell’ultimo ritocco dell’amica comune e, mentre vi girate per salutare un altro residente di cui non v’importa una sega, scappano via come morse dalla tarantola (nel peggiore dei casi lasciando anche un profumato ricordino), omaggiando il cameriere di 8500 scellini di mancia a fronte di un conto di 1500.
Altri, in fila alla Kenya Commercial Bank, iniziano a contorcersi e a sudare freddo nonostante l’aria condizionata ma, mentre il connazionale capisce il momento difficile e li fa passare avanti, l’indoarabo zelante attende il suo turno ed estrae la sua mazzetta di 780 mila scellini in pezzi da 50, da contare e depositare.
È la fine.
Il sudore freddo diventa granita e le contorsioni diventano un nuovo ballo latinoamericano.
Il virus marrone chiaro è comunque una esperienza da provare e c’è chi si è talmente abituato che ne prova piacere e non ne può più fare a meno.
Li riconoscerete per un particolare rigonfiamento posteriore dei loro pantaloni (sono nate sartorie apposite, in centro, con modelli foderati tipo pannolone all’interno) e per un naturale arricciamento del naso dei loro partner. Non sono rifatti, solo un po’ nauseati.
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