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Il Sappe e il matrimonio giriama (3 parte)

Un'altro capitolo della saga malindina di Ric Giambo

18-05-2021 di Marco Sbringo Bigi

Un vassoio colmo di aragoste grigliate troneggiava in mezzo alla tavola circondato da verdure in pastella e riso basmati mentre la luna quasi piena sorgeva da dietro l'enorme baobab del giardino della villa affittata da Rossella e Ivo.
Il Sappe propose un brindisi dedicato al grande musicista Ric Giambo, che aveva incantato la tribù intera dei giriama.
Alzai il calice e ringraziai tutti per l'attenzione, mentre il mio ego, sazio di tanti complimenti, era a posto per almeno un anno.
Ci accomodammo e demmo inizio all'ennesima fantastica cena, grazie all'abilità del cuoco, alla freschezza del cibo, e alla simpatia dei commensali.
Fu sulla strada del ritorno, quando finalmente mi trovai da solo col mio mentore che gli dissi.
«Lo sai che sei uno stronzo?»
«Tu come la vedi?»
«Vedo di fronte a me uno che lo sa. E tu come la vedi?»
«È vero, lo so - rispose scendendo dalla macchina - comunque sei stato grande oggi!»
«È vero, lo so» gli feci da eco, senza peccare, per una volta, di modestia.
«Anche domani giornata piena: cerimonia dell'assegnazione dei nomi giriama. Ci vediamo domattina alle dieci al bar»
«E non dimenticare il contrabbasso» mi venne di dirgli, ricordandomi che mi aveva raccontato di essere stato, in giovane età, anche un contrabbassista jazz.
«Ah ah ah!» e se ne andò ridendo.

Toc toc.
Una fessura nel mio occhio destro, ottenebrato dal sonno del mattino, si aprì, giusto per ricevere uno schiaffo di luce e richiudersi immediatamente.
Toc toc.
Mentre un'altra fessura si apriva nell'occhio sinistro, riuscii a realizzare che qualcuno stava bussando insistentemente alla porta della mia stanza.
Sbadigliando bofonchiai un «I'm coming!» e tentai di scostare la zanzariera che circondava il letto e che mi stava avvolgendo trasformandomi in una mummia.
Riuscii infine a districarmi, misi un pareo intorno alla vita e spalancai la porta. Un giovane keniota con un casco da motociclista appoggiato sopra la testa, sorridendo, mi porse un pacco e restò in attesa.
Restai in attesa anch'io, ancora rimbambito dal sonno, finché mi resi conto che il ragazzo aspettava una mancia.
Rovistai nella tasca dei pantaloni appesi a una sedia, gli allungai qualche moneta e chiusi la porta chiedendomi chi mai mi avesse recapitato un pacco.
Lo appoggiai sul tavolino e rimasi per un secondo in piedi a rimirarlo, poi decisi di concedermi la sequenza delle priorità: doccia e caffè, elementi indispensabili per potermi considerare sveglio e attivo.
Più tardi, con la tazza fumante in mano mi sedetti ed esaminai il contenuto della scatola.
Conteneva un bellissimo kanga bianco e rosso e altri due più sottili destinati a diventare sciarpa e cintura, insomma la divisa completa di un giriama maschio.
C'era anche una busta, la aprii, dispiegai il foglio e lessi un appunto scritto a penna che diceva:
"Sei piaciuto così tanto al consiglio del MADCA che stamattina ha deliberato di farti questo regalo.
Consideralo un privilegio raro.
Il resto te lo dico tra poco.
Katana"

Avevo riconosciuto la calligrafia e lo stile del Sappe e la firma mi fece intendere che era già stato adottato dalla tribù e che quello era il suo nome giriama.
Eccolo lì, seduto da solo al tavolo.
Come al solito mi stava aspettando affinché gli offrissi il caffè delle dieci che, dopo qualche minuto, arrivò in un vassoio insieme a due bicchierini d'acqua. Come sempre era miracolosamente buono e ristretto come solo gli italiani sanno apprezzarlo.
«Chissà perché - dissi -, fuori dall'Italia, a parte l'enclave di Malindi, è così difficile riuscire a ottenere un caffè decente. Quand'ero in Olanda, avevo imparato a gridare "Stop! Stop!" al barista, nel preciso istante in cui premeva il tasto di erogazione. Avevo calcolato che il suo tempo di reazione, prima che si rendesse conto che la tazzina era per me piena a sufficienza, era quello quasi giusto per non avere una tazza di brodo».
«La differenza - disse il Sappe con la tazzina fumante in mano - sta nel fatto che per tutto il mondo il caffè è una bevanda, mentre per gli italiani è un elisir. Comunque una risposta alla tua domanda la trovai in Nuova Zelanda».
Nella mia mente applicai l'ennesima puntina da disegno in un planisfero immaginario già colmo di segnalini a testimonianza dei passaggi del mio mentore, che continuò: «Nel porto di Auckland, ove avevo ormeggiato la Belle Coralline, c'era un negozio di generi alimentari, con una macchina automatica che erogava un buon caffè espresso, non di quelle "ciofeche" solubili. Il problema era che la quantità di acqua erogata era prefissata, giusto per riempire fino all'orlo dei bicchieroni di carta alti quindici centimetri. Mentre tutti, nel negozio, mi guardavano come se fossi un pazzo, io raccoglievo dal cestino della spazzatura un bicchiere usato e lo tenevo con la mano sinistra, mentre con la destra sistemavo il mio bicchiere pulito sotto l'erogatore e premevo il pulsante. Dopo qualche secondo di erogazione, raggiunta la quantità desiderata, con abile mossa sostituivo i bicchieri e mi gustavo un buon caffè ristretto mentre il bicchiere usato continuava a riempirsi di acqua colorata che poi veniva gettata via».
«Abile trucco - dissi - ma non mi hai ancora rivelato il motivo per cui non è concepibile per loro dare poco caffè».
«Dopo qualche giorno entrai in confidenza col gestore e gli feci la stessa domanda. Mi disse che per loro, servire poche gocce di caffè al prezzo di cinque dollari, sembrava un furto. Se paghi tanto devi almeno bere tanto».
«Una logica c'è, se consideriamo logico deglutire un barile di acqua colorata» commentai.
Dopo che il cameriere ebbe liberato il tavolino, misi sotto il naso del mio amico la lettera che avevo trovato nella scatola e, con l'aria esagerata di un attore da oratorio, chiesi «Ma chi sarà mai questo Katana che mi ha mandato un pacco stamattina???»
«Tu come la vedi?»
«Vedo, vedo, vedo che qualcuno che conosco molto bene è già stato adottato dai giriama con tanto di assegnazione del nome uguale a quello dell'anziano più stimato e rispettato, Katana Kalulu, e tu come la vedi?»
«La vedo che... o sai o chiedi, comunque - disse cambiando discorso - complimenti amico mio! Sei riuscito a conquistare l'intero MADCA e mi tocca ammettere che sei piaciuto anche a me, quasi quasi mi scappava la lacrimuccia. Tieniti forte: il Consiglio dell'associazione ha deciso di adottarti: infatti è stato deliberato che oggi pomeriggio sarai battezzato anche tu con un nome giriama».
«Veramente?» chiesi incredulo
«No, per finta...» ribatté ironicamente.
«Sono davvero onorato»
«E inoltre, per l'occasione, arriverà anche la KTN (Kenya Television Network) a riprendere la cerimonia. Purtroppo la notizia mi è scappata con un amico giornalista che ha sparso la voce incuriosendo le alte sfere dell'informazione keniota».
«Conoscendoti, la notizia non ti è scappata, secondo me stai aiutando i nostri amici del MADCA ad avere un po' più di visibilità. In Kenya ci sono più di quaranta tribù e i mijikenda stanno lottando per non essere considerati come lo erano i meridionali da noi negli anni sessanta».
«Tu come la vedi?»
«La vedo come il mio frigorifero, sono un po' svuotato... vado a fare un po' di spesa, ci vediamo dai MADCA più tardi»
«Alle due, puntuale, porta il vestito e... stai leggero a pranzo, anzi se vuoi un consiglio, saltalo!» concluse il Sappe mentre andavo a pagare i caffè.

Dai MADCA erano tutti agghindati da grande festa.
Per l'occasione erano arrivati a presiedere la cerimonia anche gli anziani più rispettati della tribù, tra cui il veneratissimo novantenne Mzee Katana Kalulu che, per l'occasione, aveva indossato un copricapo ornato con conchiglie e piume.
Rossella e Ivo erano già pronti con i loro completi colorati ed io m’infilai in una capanna insieme al Sappe che mi aiutò a sistemare il kanga, la cintura e la sciarpa.
Un esercito di ballerini, cantanti e percussionisti si era schierato a semicerchio intorno alla capanna principale, un cameraman, con una grossa telecamera appoggiata su una spalla, stava già riprendendo infilandosi nei pochi varchi disponibili e Munyaya a un certo punto prese la parola. Dopo un lungo discorso in giriama e in inglese con cui spiegava che in quel giorno altri fratelli sarebbero entrati a far parte della famiglia, invitò i "battezzandi" a entrare nella capanna per... mangiare.
«Fa parte del rituale - mi disse Ivo - fra i riti di tutte le culture del mondo, quello del cibo è il più diffuso: mangiare è convivialità, è fare il pieno di energia, è simbolo di benessere, viene persino offerto ai defunti e alle divinità. E ti va bene che non siamo in Cambogia, ti toccherebbe mangiare locuste fritte. Qui almeno abbiamo sima, che poi è polenta bianca, e capretto».
Ci accomodammo dentro la capanna su dei piccoli sgabelli di legno e ringraziai mentalmente il Sappe per avermi consigliato di saltare il pranzo, con qualche boccone di sima ci si sente già sazi. Andava presa - bollente da scottare le dita - con le mani (che erano state lavate da una ragazza accorsa con una brocca ripiena di acqua e lime), inzuppata in un intingolo a base di pomodoro e portata alla bocca. Poi toccava al capretto.
Tutto molto buono anche se la carne era, come sempre, un po' dura per i nostri denti europei. Le porzioni sarebbero state sufficienti per sfamare un esercito e a un certo punto ci arrendemmo, - tanto nulla sarebbe stato buttato via - ci rilavammo le mani e uscimmo. Tutto il villaggio era in attesa dell'inizio vero e proprio della cerimonia.
Arrivò il poeta Kazungu, sempre sorridente dietro i suoi occhialini, con in mano due sacchetti di pelle. Il primo conteneva dei bigliettini indicanti i nomi delle famiglie, (che poi sarebbe il patronimico come si usa in Africa), l'altro sacchetto conteneva i nomi propri.
A ogni estrazione Kazungu leggeva ad alta voce il nome che veniva immediatamente ripetuto in coro da tutti con grida di gioia.
Ricordo che Rossella fu battezzata Kache Mwagandi, Ivo fu chiamato Charo Kaingu ed io diventai Yongo Bembere.
Appena fu estratto il mio secondo nome, l'ultimo di tutta la serie, si scatenò una festa di ritmi, canti e danze nelle quali fummo tutti coinvolti.
I cori erano comandati a turno da anziani e da anziane.
I primi avevano una voce roca e possente e le seconde raggiungevano acuti penetranti, e subito dopo tutti i presenti rispondevano in coro mentre le percussioni scandivano ritmi vorticosi. Non solo tamburi, c'erano anche oggetti di metallo percossi, un vassoio contenente pezzi di vetro che tintinnavano e, a un certo punto, arrivò anche un ragazzo leggermente strabico che suonava una specie di protoclarinetto, un tubo con dei fori con un'ancia legata con lo spago e un suono molto nasale.
L'atmosfera era così coinvolgente che era impossibile stare fermi a guardare.
Io per primo, che non sono mai stato un gran ballerino, mi sono scatenato come mai in vita mia.
Per fortuna che, quando eravamo ormai tutti vicini a un collasso, una cuoca percosse una pentola con il mestolo, a questo segnale la musica e le danze s’interruppero e tutti si misero in fila per avere la loro dose di sima e capretto.
Rossella, Ivo ed io, sudati e col fiatone, andammo a salutare e a stringere la mano agli anziani, ai componenti del consiglio e ai componenti della troupe televisiva e uscimmo storditi dal villaggio.
Dal giorno dopo fu difficile camminare per le strade di Malindi senza essere fermato da qualcuno che mi stritolava la mano dicendomi: «Yongo! Ti ho visto al telegiornale! Benvenuto nella nostra tribù!»
La sera prima del matrimonio ci ritrovammo tutti e quattro, come di consueto, nella lussuosa villa che, ancora mi stavo chiedendo, come cavolo aveva fatto il Sappe a ottenerla in prestito. Rossella e Ivo, in previsione dell'impegnativa giornata successiva, avevano chiesto a Kenga di preparare per quella sera una cena non troppo pesante a base di pesce e insalata.
Il Sappe, dopo aver lanciato un brindisi in onore degli sposi, ci spiegò i punti salienti del programma del giorno dopo: «Vi rammento che domani parteciperemo, in quanto tutti giriama, alla grande festa a ricordo di Mekatili Wa Menza che si terrà a Bungale, che è a circa tre ore di auto da qui. Si tratta di un vero e grande villaggio di capanne di paglia e fango, quello che avete visto in questi giorni è solo una piccola ricostruzione.
Bungale non si trova nel centro di Malindi ma in mezzo al nulla, e per nulla non intendo il deserto, perché il luogo è ricco di vegetazione, ma perché è a circa quattro ore di cammino dal più vicino centro abitato. Il MADCA ha noleggiato dei pullman per trasportare tutti quelli che interverranno alla festa e noi, dato che Ivo ha affittato un bel fuoristrada Toyota, approfitteremo dei suoi comodi ammortizzatori per questo mini-safari perché il Pajero di Ric mi ha già fatto venire il mal di schiena».
«Ingrato! - ribattei semiseriamente - meriteresti di girare in tuc tuc invece di scroccarmi passaggi quotidiani, allora sì che ti verrebbe un mal di schiena come si deve!»
«State buoni, non litigate - disse Rossella con aria materna riempiendo i bicchieri di vino, e poi, rivolta al Sappe - dai, continua, voglio sapere tutto di domani».
«L'appuntamento - continuò - è fissato a Bungale verso mezzogiorno. Quando saremo tutti arrivati, si pranzerà e poi si darà inizio alla cerimonia. Rossella, la sua testimone e un gruppo di donne appartenenti alla famiglia Zahara, attenderanno nella loro capanna, mentre Ivo, con il suo testimone e un gruppo di uomini si recherà nella capanna appartenente alla famiglia Muramba... sono praticamente i vostri cognomi, giusto?»
I promessi sposi annuirono rapiti dalle parole del Sappe, che continuò: «A quel punto Ivo, sempre scortato dal gruppo dei "parenti", dovrà andare dal capofamiglia di Rossella a "chiedere la sua mano", cioè il consenso. Una volta ottenuto, si dirigerà verso la capanna di Rossella, di fronte alla quale la cerimonia vera e propria avrà luogo.
Gli anziani si disporranno a semicerchio e le ancelle, ballando, usciranno insieme alla sposa che finalmente raggiungerà lo sposo. Mzee Katana Kalulu reciterà il rituale e il matrimonio sarà finalmente celebrato. Poi gli sposi dovranno prepararsi a stringere la mano a tutti, nessuno escluso, che si metteranno in fila, e da quel momento partirà il delirio: danze, musica, mnazi (liquore imbevibile per noi), cibo. È tutto chiaro?»
«Chiarissimo» disse Ivo soddisfatto.
«Ric ed io ci portiamo la tenda e resteremo lì a dormire - disse osservando la mia reazione di fronte a quella che, per me, era una novità - voi potete fare come volete, se preferite tornare in giornata noi, due posti su un pullman, li troveremo».
«Quindi si dorme in tenda» dissi, al tempo stesso rassegnato di fronte alle sorprese del Sappe, ma anche intrigato dall'idea di passare una notte sotto le stelle dell'Africa, in un luogo sacro per la "mia" tribù in festa.
«Sì, sarà un'esperienza indimenticabile, d'altronde sai che, oltre ad esserti offerto di fare il servizio fotografico al matrimonio con la tua bella Nikon, ti toccherà, domani sera, esibirti con la chitarra di fronte al pubblico più caloroso che tu abbia mai avuto»
Stavo per ribattere che non mi ero offerto per fare nulla ma rimasi soffocato dall'abbraccio di Rossella che esclamò: «Grazie Ric! Meno male che ci sei tu, se no come avremmo potuto avere una testimonianza del nostro matrimonio giriama!»
«Tu come la vedi?» mi chiese il Sappe di punto in bianco, sulla via del ritorno a casa, interrompendo il silenzio che aveva dominato la prima parte del percorso.
«La vedo... che mi piacerebbe prendermi una vacanza da quello che pensavo fosse un amico e invece è un prepotente, autoritario e un po' stronzo rompiballe. Ci fosse una volta che prendi una decisione chiedendomi prima un parere!»
La risata del Sappe echeggiò per tutta Shella e me ne andai a casa trattenendo a fatica un sorriso.
 

...CONTINUA

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