RICORDI
17-11-2019 di Freddie del Curatolo
Baracche di legno e makuti e niente “mabati” o lamiere, strade semideserte e pulitissime, solcate da tantissima gente a piedi e qualche rara bicicletta, fiori e piante dappertutto, così come gli insetti e i serpenti. Spazi ampissimi nei giardini delle ville e degli hotel.
Pochi edifici nelle arterie principali della cittadina, nessun edificio con più di tre piani. Questa era Malindi trentacinque anni fa, quella che vedete nelle fotografie inviateci dal nostro lettore Alessandro Loria. Gli hotel italiani già aperti erano il Coconut Village dell’imprenditore bergamasco Gianfranco Vitali, lo Skorpio Villas di un , il White Elephant dell’artista livornese Armando Tanzini, il Palm Tree Club del bresciano Renato Marini. Il toscanaccio Camillo Duranti stava per aprire il Suli Suli, che poi sarebbe diventato Bouganvillage, e il Conte Rubboli il Lady Cheetah.
Un’insegna nella scorrevole e semivuota Kenyatta Road, dopo la stazione di polizia, ricordava il vecchio distributore dell’Agip, ma un’altra Italia si stava affacciando alla cittadina.
L’inizio della “colonizzazione” turistica italiana sulla costa keniota era cominciato pochi anni prima.
Il flusso vacanziero a quei tempi era soprattutto tedesco, in albergoni come Eden Roc e Blu Marlin sulla centrale Lamu Road, mentre quello dei villeggianti di lungo corso era tutto britannico, con luoghi di aggregazione come Lawfords, Malindi Fishing Club e Sinbad, che però era già in fase di chiusura e le cui rovine sono ancora oggi visibili di fianco al Casinò.
Ma sulla spiaggia di Silversand erano già in preparazione quelli che sarebbero stati i punti di riferimento del turismo italiano: Jambo Village (dove sorge oggi il Billionaire), Stephanie Sea House (l’attuale Tamu Beach Resort), Kilili Baharini, Tropical Village, African Dream.
Due soli erano i ristoranti italiani: I Love Pizza dove si mangiava tutto benino tranne la pizza e La Malindina dell’estroso napoletano Mario “Mimì” Frascione, covo di vip e di nababbi dove si mangiavano i più buoni spaghetti “sciuè sciuè” del Continente Nero. C’era anche una gelateria italiana, quella di Beppe il Capitano: molto meno di un gestore di locali, molto più di un filosofo. L'alternativa era un ristorante nel "bush" di Casuarina gestito da inglesi, l'Umande, perché nei chioschi locali la dissenteria era molto più di una probabilità.
Non esistevano i televisori e si comunicava con l’Italia prevalentemente con il telex, mancava spesso la luce, anche per due o tre giorni di seguito, non esistevano i beach boys e i tuk tuk, non c’era il casinò e c’era un solo pseudo-supermercato, il Malindi Supermarket dell'indiano Umesh. C’era molta più malaria e la mortalità infantile dei bambini di Malindi era dieci volte più alta di oggi.
Non si trovavano facilmente prodotti italiani, il vino che arrivava era solitamente imbevibile e uno su due sapeva di tappo.
La birra Tusker però costava 200 lire italiane alla bottiglia, un chilo di aragoste 1500 lire e un tonno da cinque chili si poteva barattare facilmente con una t-shirt usata, con grande gioia del pescatore.
Nulla come le fotografie, che le migliaia di frequentatori della Malindi di quegli anni avranno ancora nei cassetti, riportano alla mente un tempo che sembra trascorso da poco e che invece per il Kenya e la sua costa è già preistoria.
Dopo aver letto queste righe scaturite dagli scatti di Alessandro, sicuramente qualcuno mi scriverà per correggermi o aggiungere locali, situazioni e altro che ho vissuto solo nei racconti di mio padre e di altri vecchi residenti italiani, perché io arrivai cinque anni più tardi. Karibu!
Chi avesse immagini da inviarci e storie da raccontare della Malindi del secolo scorso, può farlo scrivendo a info@malindikenya.net o inviando su whatsapp al +254720178982.
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