Editoriali

EDITORIALE

Quando gli italiani in Kenya si costruivano la casa

Ville da nababbi, casette e casini...e quanti dilettanti allo sbaraglio

03-07-2021 di Freddie del Curatolo

Nel 2007 tra Malindi, Watamu e Mambrui le abitazioni di proprietà di italiani erano più di dodicimila. Fare una stima ufficiale di questo genere in Kenya è sempre stato più o meno come trovare i pomodori ogni giorno allo stesso prezzo al kilo.
Questo dipende dal fatto che molte ville, appartamenti e cottages non sono mai stati dichiarati al fisco, né italiano né keniano ed altre invece, benché i nostri connazionali credano di esserne proprietari, appartengono ad altri.
Su richiesta di una testata giornalistica italiana con cui ai tempi collaboravo, in quelli che sono stati considerati gli anni d’oro dell’immobiliare d’importazione, provai a fare la “conta” più verosimile possibile. Girando, chiedendo informazioni, catalogando, investigando anche. Nel frattempo scoprì cose interessanti e curiose che ancora oggi preferisco tenere per me.
Comunque, quante ne sono rimaste 14 anni dopo?
Secondo un’altra stima ancor meno ufficiale, oggi dovrebbero essere meno della metà, ma probabilmente ancora meno se si calcola che a Malindi una villa su 4 nel frattempo è stata venduta a non italiani.
Eppure in questi anni il turismo è cambiato in una direzione che avrebbe dovuto favorire il cosiddetto “turismo residenziale” o “vacanza ciabattara”.
Cambiata la politica dei resort, sono aumentati i residence e la possibilità di acquistare bilocali a prezzi convenienti.
Perché le “domus auree” degli italiani anni Ottanta e Novanta sono state vendute?
In primo luogo perché erano state pensate davvero per colonie di nababbi che sembrava potessero (o dovessero?) spendere capitali che era meglio portare all’estero, e ancora di più in un Paese in cui (allora) non c’erano né estradizione né accordi bilaterali di natura fiscale.
Quindi anche una coppia con figlio unico, su un terreno di 10 mila metri quadri, faceva ideare una reggia tropicale da architetti quasi sempre senza laurea e geometri senza diploma ma esperti di carriole prodotte a Mombasa e cemento di Athi River.
Due piani più l’attico, sette camere da letto con relativi servizi, un bagno di conforto per ogni piano più uno per lo staff di casa, due verande grandi più altre tre per ogni lato della casa in cui si poteva accedere alle stanze autonomamente, mentre le suite al primo piano con altre due verande balconate. Cucina, magazzino, studio, stanzetta massaggi, zona relax in giardino con gazebo, piscina enorme con ponticello e vasca idromassaggio con stanze per generatore e pompa per l’acqua e un grande pozzo. Infine un giardino equatoriale da passeggiata in cui, durante l’escursione tra baobab e frangipani, si scoprivano una piccola dependance con altre due stanze e due bagni, la casetta del personale, il garage e, nascosto da un ficus secolare, un autentico villaggio giriama con capanne di fango, orto e anziane donne che cucinavano la polenta.
Oggi, se va bene, queste residenze da papi (nel senso anche berlusconiano del termine) sono state trasformate in bed&breakfast oppure ospitano famiglie di Nairobi che tra famigliari e parenti non riescono a starci tutti e sono stati costretti ad abbattere il villaggetto giriama e costruire un condominio con 22 appartamenti.
Chiaramente non c’erano solo tipologie di residenze di tale opulenza, il Kenya italiano accoglieva ogni fascia sociale ed economica. In fatto di “nero” non siamo mai stati un popolo razzista e ci siamo sempre inginocchiati volontariamente al cospetto di affari da cogliere al volo.
Oltretutto, nel caso del Kenya, un volo di sole otto ore e...VIA! Con 30 mila euro sei già proprietario di una casetta in riva al mare! Figuriamoci con 60...la stessa casetta ma venduta da un bravo intermediario.
Ma ci sono anche gli italiani più furbi degli altri, quelli che non si fanno fregare. E piuttosto che rischiare di incontrare sulla loro strada sterrata l’intermediario più bravo di tutti, la villetta dei sogni se la sono costruita da soli! Spendendo alla fine 200 mila euro in materiali, rifacimenti, personale, burocrazia, varie ed eventuali, e aggiungendone altri 100 per l’arredamento.
Eppure, ce lo insegnano gli indigeni, per vivere qui basterebbero quattro mura anche sottili e un tetto di foglie di palma secca.
Se ci rechiamo nell’immediato entroterra, in ogni villaggio di capanne di fango, troviamo sempre almeno una casetta in cemento che ha queste caratteristiche: semplicità di forme, economia di materiali e un’ampia veranda.
D’altronde cosa ti vuoi inventare, con il clima che c’è?
Per avere sempre un po’ d’aria basta mettere le finestre in asse, fare il tetto piuttosto alto e non controsoffittare, tirando al limite sottili fili da pesca molto fitti sotto il tetto di makuti, per evitare che vi possano cascare in testa pipistrelli o serpenti. 
I britannici, guarda un po’, costruivano proprio così le case.
Tutte le villette si assomigliavano.
Le ampie verande fungevano anche da salotto, chiuse con cancellate di ferro da lucchettare per evitare intrusioni.
La cucina aveva sempre un disimpegno nel retro e le camere sparivano in una sezione “notte”, rimanendo chiuse fino a sera e al riparo dalle zanzare.
In più le loro case erano immerse nella natura del terreno che le ospitava.
Guai a togliere un baobab, a segare una palma, a stendere un’acacia o trapiantare un flamboyant.
Noi italiani, invece, non ci accontentiamo di una semplice dimora, dobbiamo metterci un tocco d’inventiva, con la sana presunzione del “questa l’ho fatta io!”.
Ed è proprio quello che ha fatto partorire in passato, grazie a fior di palazzinari cresciuti alla scuola di chi ha cementificato l’Italia, condomini in stile Marina di Cecina o Lido di Jesolo, ville bollywoodiane (perché un conto è l’idea in testa, un conto è affidarsi a un progettista indiano...) o imitazioni di Porto Cervo che magari diventano Porto Kudu, ma sempre le corna hanno. Ma nel frattempo, sotto i ponti di Kilifi e del Sabaki quanta vita è passata e quanto ci siamo divertiti, tra fondamenta sbagliate, colonne tirate sù e ributtate giù nel tempo di una bestemmia toscana prolungata, piscine che perdevano e falegnami, idraulici ed elettricisti che vincevano un terno al lotto.
Cosa sarebbe la storia degli italiani in Kenya senza l’edilizia?

TAGS: case kenyaimmobiliare kenyaitaliani kenya

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