Editoriali

EDITORIALE

Watamu, ora o mai più: al lavoro per garantire sicurezza

Non c'è più tempo da perdere, ecco cosa bisogna fare

02-03-2023 di Freddie del Curatolo

E’ ancora faticoso elaborare un lutto così difficile da accettare.
Non tanto perché chi vive e lavora in Kenya non possa aspettarsi incidenti di questo genere, anche se fortunatamente sulla costa ne accade al massimo uno all’anno di questa portata, ma perché con 182 clienti di un resort sia toccata proprio a Michela, esile, sorridente ragazza bergamasca che fino a due minuti prima era così entusiasta della sua vacanza africana, con tanto di safari in compagnia del suo affezionato cugino che era già stato a Malindi e aveva deciso di tornare con lei a Watamu. Un gesto istintivo, una corsa in camera per salvare qualche effetto personale, mentre tutti si mettevano in salvo. Chi mi legge lo sa, cerco sempre il lato umano delle vicende e in questo caso non è affatto un sollievo.
Non è la prima volta che va in fiamme un hotel o un residence. La lista nei miei 33 anni di Kenya è molto lunga.
L’Angel’s Bay di Mambrui è bruciato addirittura 3 volte. Abbiamo visto ridotti in cenere prima il Watamu Beach, poi lo storico Palm Tree di Kibokoni, il Dorado che non ha più riaperto, la Stephanie Sea House che fu mezzo salvato, il Lily Palm e l’Alawi ancora a Watamu e via dicendo, senza contare le trenta ville a Casuarina e l’Indiana Beach a Bamburi, vicino Mombasa.
Lista lunga e pochi correttivi, sia al makuti che sarebbe ora sinceramente di vietare per le strutture non isolate (spiace per la sua bellezza e per come tiene fresco l’ambiente, ma appartiene ormai ad un’altra epoca, ad un altro Kenya) che alle stazioni dei vigili del fuoco che non solo mancano in luoghi nevralgici, ma guarda caso quando si tratta di emergenze hanno sempre qualche problema: pompe rotte, acqua mancante, benzina non sufficiente.
Poi c'è l'ordine pubblico: dopo l'ennesimo episodio del genere, non è più possibile scusare i finti beach boys (perché di questo si tratta e i cosiddetti beach operators seri dovrebbero essere i primi ad accusarli) che sono i primi ad assaltare gli hotel in queste occasioni per rubare di tutto, senza pietà.
Infine la sanità. Certo, quando si parla di sanità da queste parti, viene da pensare che se mancano i requisiti minimi, se nel paese ancora, secondo le organizzazioni per i diritti umani, nelle corsie di ospedale si muore ancora di dolore per mancanza di antidolorifici, cosa si può pretendere?
La sanità decente è quella privata, dappertutto. Ergo, se nessuno costruirà una clinica come si deve a Watamu, chiunque abbia problemi dovrà essere trasportato a Mombasa, e meglio ancora a Nairobi.
Ma senza un’assicurazione medica seria, nulla è scontato.
Questo è il Kenya, e come si suol dire “si aspetta il morto” per portare ogni volta a galla problemi che, nonostante la crescita del paese come servizi, sicurezza e consapevolezza, rispetto agli anni passati, non riesce ad offrire garanzie, perché contemporaneamente cresce e cambia la società e l’urbanizzazione anche delle zone turistiche. Con il rischio che il paradiso, improvvisamente, si trasformi in un inferno senza vie d’uscita né estintori. Noi pensiamo sempre positivo e vogliamo credere che la visita tempestiva del Governatore Gideon Mung’aro a Watamu non sia stata solo “di prassi” e che il suo incontro con la comunità, gli imprenditori del turismo e i residenti sia di buon auspicio. Ci sono state già delle promesse.
Bisognerà fare tutto il possibile per non dover piangere altre dipartite assurde, considerando che è vero che contiamo una tragica vittima, ma bisogna anche ammettere che a Watamu, ad altri hotel e attività locali e straniere, è andata di lusso. Un vento diverso e saremmo qui a piangere ben altro.

TAGS: turismosicurezzawatamu

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