Reportage

REPORTAGE

Nell'insostenibile sostenibilità di Msambweni

Prosegue il nostro viaggio nella costa sud del Kenya

27-08-2021 di Freddie del Curatolo

Probabilmente il turismo cosiddetto “sostenibile” è un’utopia.
Appartiene a certi articoli di eco-riviste e a fotoservizi sapientemente ritoccati di spiagge incontaminate (perchè ci si può arrivare solo in barca), savane sterminate (dove prolifera il bracconaggio) e montagne inesplorate (dove arrivano solo i droni).
Eremi per miliardari dove però guai se non c’è l’eliporto, oasi da mille e una notte in deserti lunari in cui non può mancare il wi-fi, altrimenti come fai a far schiattare d’invidia il 94% dei non eletti?
Eppure se c’è un paese dove ancora si potrebbe sostenere il sostenibile, questo è il Kenya.
Girando e frugandolo in ogni anfratto come cerchiamo di fare noi, con occhi e piedi prima ancora che con obbiettivi e tastiera del computer, ci sarebbero ettari ed ettari ancora non sputtanati da conservare, proteggere, rendere fruibili in maniera rispettosa dell’ambiente e al limite far crescere turisticamente senza rovinarli.
Oggi ci imbattiamo nella quiete di Msambweni, cittadina “diffusa” come si direbbe oggi, tra le piantagioni di canna da zucchero di Ramisi e le mangrovie dell’isola di Funzi, pochi chilometri a sud della rinomata località turistica di Diani Beach.
Diffusa perché a Msambweni non esiste un centro, una piazzetta, un classico ritrovo. Non c’è il villaggio di pescatori sulla spiaggia e nemmeno un albero millenario appaltato dai boda boda dove si raccoglie la gente del posto. E’ tutto sparso: il grande e moderno ospedale, quasi sempre semivuoto, il mercato spalmato tra l’autostrada e due traverse da cercare con pazienza, gli uffici e i servizi essenziali non segnalati da cartelli evidenti e tutto il resto come avvolto in una bolla di acqua di cocco e cloroformio.
Le strade per arrivare alle due spiagge dove si potrebbe incontrare qualche turista locale o straniero, sono sterrate. Una si chiama “Sawa sawa” ed affacciandoti comprendi come la traduzione “Va tutto bene” sia quantomai azzeccata: è un luogo sospeso nel tempo dove si vive di pesca di sussistenza, praticata perlopiù con piroghe costruite artigianalmente e poco altro. La frutta non si vende al mercato, perché manghi e banane si colgono direttamente dalle generose piante e si mangiano e l’unica risorsa che è necessario coltivare, come sempre, è il mais.
Lungo Sawa Sawa Beach ci sono villette e strutture baciate dall’alta marea che entra quasi in veranda. Un boutique hotel gestito da una coppia del Nord Europa che lavorava per le Nazioni Unite a Nairobi e ha fatto una scelta di vita totalmente opposta, case private di indiani e keniani alternativi che preferiscono la pace e la semplicità alla “movida” e anche di qualche italiano che ama da sempre un’Africa ben diversa da quella della vacanza perfetta ed accetta i suoi paradossi, le sue difficoltà e l’impossibilità di un’integrazione completa con i suoi popoli, abbracciandone però le abitudini, la vita semplice e la filosofia.
Per il vero c’è anche qualche lascito di un passato in cui qualcuno aveva provato a fare di Msambweni una località di villeggiatura come altre: un ristorante che promette pizza ma non la fa, un mini resort abbandonato e uno ancora vivo ma febbricitante e qualche edificio abbandonato.
Accanto a questa sfilata di ere geologiche recenti affacciate all’oceano, spicca la casa privata di un eccentrico scandinavo da cui si capisce che non è un caso che Alvar Aalto sia di quelle parti.
Non c’è altro, davanti alla barriera corallina e a piccole insenature ricoperte di mangrovie.
Per trovare l’altra spiaggia di Robinson Crusoe, bisogna spostarsi di qualche chilometro e qui si arriva nel grande paradosso con cui abbiamo iniziato questo racconto: l’insostenibilità del sostenibile.
La spiaggia chiamata Furaha (felicità), è un favoloso esempio di come poteva presentarsi la costa swahili fino ai primi del Novecento. Foreste impenetrabili a ridosso del bagnasciuga, rocce e cortecce che fanno a gara ad aggiudicarsi un po’ di sole, specchiandosi nell’azzurro dell’oceano che risuona di un’energia pura e curativa. Qui alcuni lungimiranti artisti dell’hospitality hanno investito per creare quei luoghi di pace e meditazione, i cosiddetti “retreat”, per chi se li può permettere. C'è un belga, un tedesco e, come nelle classiche barzellette, c'era anche un italiano che, forse subodorando la futura insostenibilità, se n'è andato anzitempo. 
Già, perchè qui ora, purtroppo, si sta affiancando una lottizzazione selvaggia: nessuno osa ancora edificare hotel, residence o ville, ma ogni spazio libero della spiaggia della felicità viene occupato da muri di cinta che a vederli colmano di tristezza gli spazi che il cuore si era tenuto per gli aneliti di libertà.
Quando tra una prigione di corallo e cemento e l’altra scorgi tra le fronde una vecchia casa dal chiaro gusto “old colonial” britannico, ti viene da pensare a quale debba essere il prezzo della sostenibilità e a chi dovrebbe sostenerlo. Perché il peso di una civiltà marcia e compromessa come la nostra, sappiamo benissimo su chi ricade.
Passeggiamo sulla spiaggia di Msambweni, godendo della meraviglia che esclude i muri e dei piedi che assaggiano granelli di felicità, prima di buttarci in mare e sciacquare in un’acqua cristallina i cattivi presagi.
C’è ancora tanta bellezza in Kenya e non basterà una vita per raccontarla.

TAGS: msambwenicosta kenyaspiagge kenyaluoghi kenyareportage kenya

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