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EDITORIALE

L'altro Kenya e il mal d'Africa degli italiani

Considerazioni sulle mail che riceviamo

11-10-2022 di Freddie del Curatolo

Noi di Malindikenya.net seguitiamo a ricevere testimonianze di lettori (e sono ormai 15 anni che ci arrivano e le archiviamo tutte nel “database” della nostra casella di posta) che ci parlano del loro “mal d’Africa” al ritorno da una vacanza in Kenya o dopo essere tornati e tornati ancora ed essere stati coinvolti da qualcosa di speciale (o anche qualcuno).
Abbiamo parlato tanto di questa strana sindrome che non è proprio una nostalgia, tipo la saudade brasiliana, e non è nemmeno una mancanza fisica di sole-mare-natura e sensazione di perenne salutare abbandono, magari contrapposto alla frenetica vita occidentale.
Quel che avevo da dire sul cosiddetto Mal d’Africa, molti di voi lo sanno bene, l’ho scritto in questa poesia-monologo.
Oggi però prendo spunto dalla mail di Federica, una giovane laureata che si è regalata una vacanza a Watamu e mi ha raccontato di come da lì ha deciso di cambiare la sua visione e pensare di vivere nell’entroterra e collaborare con un’organizzazione non governativa. Questo, dice lei, perché ha conosciuto “l’altro Kenya”.
Allora vorrei puntualizzare due cose che secondo me sono altrettanto vere: la prima, banalissima, è che il Kenya che fa innamorare così tanti connazionali e che rapisce l’anima non può essere quello di Watamu e Malindi.
La seconda è che moltissime persone hanno scoperto “l’altro Kenya” proprio grazie a Watamu, perché è quasi sempre lì che “ci tocca andare” quando decidiamo di fare una vacanza in Africa.
E l’altro Kenya non può essere che in Kenya, se parti da una vacanza, questo è il dato di fatto inoppugnabile. Perché se vai a Zanzibar puoi goderti l’arco di una vacanza, ma è difficile che tu possa scoccare la freccia verso il cuore dell’Africa, quello che ti rapisce l’anima. Ti fermi quasi sempre alla dimensione turistica, al resort, alla bella spiaggia, alla gita con shopping a Stone Town.
La stessa cosa può avvenire se prenoti un soggiorno, magari di una sola settimana, in uno degli splendidi villaggi sulla spiaggia di Watamu e non esci mai da lì: niente safari, niente vita sociale e niente cultura locale che non siano due maasai che saltano e vendono braccialetti o quattro tamburi giriama con annesse coreografie tradizionali. E’ un po’ poco per capire il Kenya.
Eppure c’è chi ce l’ha fatta, chi è voluto andare oltre e dopo una vacanza ne ha pensata subito un’altra, possibilmente non in un resort, e poi una terza...Allora il “mal d’Africa” non è più una necessità di fuga, diventa l’abbraccio della vita che ti propone un senso ed è bello sapere che c’è una generazione giovane che si sporge verso questo abbraccio.
Anche perché, più a Malindi che a Watamu per dire il vero, siamo abituati a chi frequenta il Kenya da una vita e non ha mai messo il naso fuori dalla contea di Kilifi e per cui non esiste un “altro Kenya” dove non si possano trovare le mezze penne rigate, dove nessuno ti saluta con un “ciao” né capisce l’italiano, dove non tutti sono sudditi e proni quando l’uomo bianco apre il portafogli e dove le studentesse sono davvero studentesse. Ha ragione Federica: viva la vacanza e viva l’altro Kenya, perché insieme possono instillare un “mal d’Africa” completo e per quanto giusto e possibile, consapevole.

TAGS: mal d'africaaltro kenyavacanza

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