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Storie di Malindi: Il Sappe e l'ospite...(seconda parte)

Quinta puntata della saga di Ric Giambo

16-02-2021 di Marco "Sbringo" Bigi

(PER LEGGERE LA PRIMA PARTE CLICCA QUI...)

Shella, che si pronuncia Scèla, è un antico quartiere di Malindi nel quale, fra le mille influenze imposte dai vari dominatori, provenienti dai luoghi più disparati, e che si sono avvicendati nel corso dei secoli, è quella araba che a tutt’oggi si fa più sentire, come del resto è avvenuto in buona parte delle coste africane e asiatiche che si affacciano sull’Oceano Indiano.
A causa del labirinto di vicoli nei quali è facile perdersi, è raro che un turista si addentri nei meandri della vecchia Malindi.
Io stesso non c’ero mai stato prima che il Sappe mi ci trascinasse per andare a mangiare pojo e sima (lenticchie e polenta) al ristorantino di Mansur, consentendomi così di intravedere un dedalo di strade strette, sfilando accanto a case basse, vecchi seduti nel patio a osservare la gente che passa, di donne che preparano da mangiare all’aperto su braci accese, mentre orde di bambini corrono festanti da tutte le parti e le voci dei Muezzin si diffondono a ore precise dagli altoparlanti delle numerose moschee.
Il lusso delle case, quasi tutte a un solo piano, è evidentemente proporzionale al reddito dei proprietari, che è mediamente molto basso, in quanto rare sono le porte intarsiate e i tipici archi a punta, mentre molto più frequenti sono i tetti in lamiera e le pareti scrostate di case abitate comunque con grande dignità.
Passeggiando per Shella non si avverte per nulla pericolo, anzi, grandi sorrisi, saluti, molta curiosità, qualche parola in inglese dai più giovani che hanno studiato e l’immancabile “ciao” che è ormai parte della lingua locale, quasi quanto il famoso“jambo”. Più riservate sono ovviamente le donne che, da sotto il velo, si limitano a lanciare agli sconosciuti occhiate della durata di un battito di ciglia, che sembrano penetrarti come i raggi di una radiografia.
Seguendo le istruzioni datemi dal Sappe, parcheggiai il Pajero nella piazza senza nome sulla quale si affaccia la caserma dei Vigili del Fuoco e mi addentrai a piedi, con la mia borsa a tracolla, nella cosiddetta Shella Road, a quei tempi sterrata ma oggi finalmente lastricata, che arriva fino al mare.
«Vai avanti per circa duecento metri e poi svolta a sinistra in un piccolo cortile. Se in fondo ad esso vedi una palazzina gialla di due piani, è lì che devi andare» mi aveva detto al telefono.
Raggiunsi il cortile e rimasi spiazzato dalla visione di una casa fatiscente che, per quanto era disastrata, mi fece venire in mente le immagini dei notiziari di una Beirut bombardata nei suoi tempi peggiori. I muri incrostati lasciavano intravedere, sotto l’ultima mano di giallo, ere geologiche di pitture rosse e blu, addirittura alcune macchie preistoriche di verde e di viola rivelavano pennellate di antichi imbianchini. Muratori probabilmente ubriachi o semplicemente incapaci avevano eseguito dei lavori mollati a metà, come ad esempio una trave di cemento a circa tre metri d’altezza che spuntava un po' storta dalla base di un terrazzino e che finiva nel nulla. Nel piccolo atrio un’enorme tavola di legno pendeva, inchiodata alla parete in qualche modo, quasi crollando per il peso di diversi contatori di corrente attorniati da gordiani grovigli di fili elettrici. Una porta chiusa da un'inferriata rivelava la presenza di un appartamento al piano terra, sulla destra si apriva un vicolo, che dava verso un altro inaspettato cortile, dal quale apparvero una capra curiosa e una gallina insolitamente starnazzante. Infine una scala laterale, dai gradini molto irregolari, s’inerpicava sulla sinistra, ed era lì che Sappe mi aveva detto di dirigermi per raggiungerlo nella sua “reggia” al piano superiore.
Mi ritrovai di fronte a una porta di ferro nera nella quale c’era un buco, grande abbastanza da far passare una mano, che lasciava intravedere un lucchetto che pendeva dall’interno. Ingegnoso sistema – pensai – per utilizzarne uno solo.
Bussai e sentii la voce ovattata del Sappe che mi urlò: «Un attimo, arrivo!»
Le fronde di un albero, colme di fiori gialli, ombreggiavano il pianerottolo sul quale mi trovavo e, mentre attendevo che il Sappe venisse ad aprirmi, fui colpito dalla palazzina confinante, dal puro stile arabo, che sembrava uscire da un racconto delle Mille e una Notte.
Da quell'altezza si riusciva a intravedere il piccolo cortile interno, ove un anziano con la tunica bianca era seduto a gambe incrociate su un gradino a bere un tè.
Mentre il Sappe armeggiava col lucchetto, il Baba alzò lo sguardo verso di me e mi fece un cenno con la mano al quale risposi sorridendo.
Con un rumoroso “Caclack” la porta si aprì e il Sappe mi diede il classico benvenuto swahili: «Karibu Rafiki!»
Un corridoio con una lampadina penzolante dal soffitto si spingeva, sulla destra, verso il terrazzino con la trave monca che avevo visto dal cortile, da lì partiva un’altra scala che probabilmente portava al terrazzo soprastante. A sinistra, invece, c’era un ballatoio sul quale si affacciavano cinque o sei porte. Quello scorcio ricordava tantissimo le case di ringhiera della vecchia Milano cantata da Enzo Jannacci e da Nanni Svampa.
Sappe si diresse a destra, verso l’unica porta che si trovava in quella direzione e mi fece cenno di seguirlo dicendomi: «Questo è il mio regno».
Entrai, mi guardai intorno e scoppiai a ridere «Ma questa, ahaha, è una roulotte!»
Si trattava di un minuscolo monolocale con un arredamento minimale. Sotto la finestra c'era un tavolo a scomparsa, sotto il quale intravedevo alcuni sgabelli di legno che avevano anche la funzione di sostenere uno dei due materassi appoggiati a libro su un divano che, grazie a questo artificio, si trasformava in un letto.
In fondo a sinistra c'era l'angolo cucina con un lavandino e delle mensole in muratura sulle quali trovava posto un fornello elettrico. A destra vidi una libreria piegata dal peso di innumerevoli libri e infine, una porta dava su un piccolo bagno con doccia.
Una ventola muoveva l’aria dal soffitto e dalla finestra si vedevano tutti i tetti di Shella fino al mare. Rispetto alla fatiscenza dell'esterno, la prima cosa che saltava all’occhio (e volendo anche al naso), era la pulizia: pareti immacolate, neanche un granello di polvere, le stoviglie lavate disposte ordinatamente sullo scolapiatti, il pareo colorato che copriva il divano era stirato e si intravedevano tutti i vestiti disposti ordinatamente nell’armadio ricavato da una rientranza del muro. Alle pareti erano appesi dei quadri che avevo riconosciuto per suoi, da alcune bozze che aveva scarabocchiato sui tovaglioli del bar (anche pittore, pensai).
Tra gli angusti spazi lasciati liberi da divano e tavolo il Sappe, che si muoveva leggiadro come un ballerino, si diresse verso l’angolo cucina chiedendomi «Cosa bevi? Caffè? Tè? O birra?»
Senza aspettare risposta aprì un piccolo frigorifero che non avevo notato, di quelli da camera d’albergo, ed estrasse due bottiglie di Tusker, le stappò e me ne passò una.
«Era una domanda retorica, quindi – dissi prendendo la birra – ma… (feci una pausa teatrale) non sarebbe ora di finirla con le domande retoriche?»
«Ahaha buona questa!» esclamò ridendo Sappe.
«Piuttosto – dissi con un tono di voce più serio – vedo che, come tu vai insegnando, il tuo alloggio non ha più di una camera...».
«Ah, sei preoccupato per la tua sistemazione? - mi interruppe – vieni con me!»
Varcò l'uscio, si diresse verso il ballatoio con la bottiglia della birra in mano, aprì la prima porta sulla sinistra e si fece indietro con un'ironica riverenza per farmi passare.
Entrai e vidi una perfetta camera d’albergo, con un letto circondato da una zanzariera, un comodino, un tavolo, una sedia, un armadio e un lavandino nell’angolo. Le lenzuola e gli asciugamani profumavano di bucato e anche qui una ventola pendeva dal soffitto.
«In fondo al ballatoio ci sono due bagni con doccia, uno è a uso esclusivo per te, le chiavi sono sul comodino. Puoi fermarti quanto vuoi, per la prima settimana sei mio ospite, se poi vorrai fermarti di più, mi pagherai quello che chiedo ai miei clienti. Un’inezia per un Mzungu come te».
«Ma che cos’è un albergo? È tuo?»
Dalla sua espressione mi accorsi che stava per donarmi l’ennesima perla di saggezza, infatti, con aria solenne declamò: «Quando tu pensi di possedere qualcosa è invece quella cosa che possiede te!»
Proseguì poi con un tono normale: «Questa palazzina era una volta una Guest House e al piano di sopra, sulla terrazza, c’era un bellissimo bar ricoperto da un grande tetto in makuti, cioè di paglia. Il tetto bruciò, il proprietario attraversò una fase di crisi e chiuse tutto. A quel punto gli proposi di darmelo in gestione ed eccoci qua, le altre camere e l’appartamento di sotto sono occupati da brava gente che si alza tutte le mattine di buon'ora per andare a lavorare. Direi che gli unici personaggi ambigui, qui - si guardò intorno con aria e assunse un tono confidenziale  - siamo io e te».
Bisognava solo abituarsi al canto del muezzin, al tuktuk che scaldava il motore sotto la finestra alle sei del mattino, al vociare dei bambini, al belare delle capre e a quel maledetto gallo che iniziava a cantare molte ore prima dell’alba. Per il resto si stava bene nella Guest House del Sappe. Tutti i giorni veniva una timida ragazza a fare le pulizie ed era l’occasione per lasciarle libera la camera e andare a fare due passi.
Mi piaceva Shella ed io piacevo alla sua gente.
Evidentemente si era sparsa la voce che ero amico del Sappe e tutti mi salutavano chiamandomi per nome, chiedendomi come stavo, se avevo bisogno di qualcosa di non farmi problemi. Quando passavo, i bambini mi correvano incontro festanti e pian piano conobbi i vicini di casa come, ad esempio, George, che gestiva uno spartano ristorantino, troppo pieno di mosche per decidere di accettare il suo invito ad accomodarmi o Mohammed, un ragazzo che gestiva un negozio di articoli idraulici che mi lanciava sempre grandi sorrisi. Riconobbi Farid, l'anziano che avevo intravisto il primo giorno dalla cima della scala, che mi raccontò della recente scomparsa della moglie e che insisteva sempre perché andassi a bere un tè da lui e infine Raphael, un bimbetto vispo di sei anni che ogni volta che arrivavo si infilava nella mia auto, si metteva al volante e faceva "brum brum" con la bocca. Della sua mamma - mi raccontò il Sappe -  non c'erano notizie e viveva, insieme ai suoi fratelli, con la nonna che si faceva in quattro per mantenerli. Ogni tanto le allungava qualche scellino e si assicurava che il ragazzino andasse a scuola, era la sua unica speranza per emanciparsi dalla condizione di ragazzo di strada.
Ero così affascinato dalle nuove esperienze che per qualche giorno mi rilassai, dimenticando le tensioni delle settimane precedenti, finché una tarda mattina, mentre ero seduto al bar col Sappe, decisi di provare a chiamare Ettore. La classica voce registrata mi avvertì che il telefono poteva essere spento o non raggiungibile.
«Che strano, è sparito» dissi tra me e me.
«Di chi stai parlando?» mi chiese il Sappe.
«Di Ettore».
«Non è sparito - rispose guardando l’orologio - a quest’ora probabilmente sta volando sopra la Somalia verso Roma»
«Ma come, se n’è andato? Senza dirmi niente? E come mai non mi hai detto nulla?»
«Perché era diventato la tua ossessione, lo vedi come ti ha fatto bene cambiare aria...».
«Sì, te ne ringrazio, ma... fammi capire, se n'è andato senza salutare, vuol dire che è fuggito, cosa gli ha fatto Makotsi? Si è finto un fantasma e gli ha fatto il solletico ai piedi nel letto?»
«Niente di tutto ciò, semplicemente si è piazzato da te con moglie e figli»
«Continuo a non capire, non mi sembra così semplice - restai un attimo a pensare e poi chiesi - quanti figli?»
«Non ricordo bene, sicuramente otto, forse nove, so solo che il più grande, Adam, è un quattordicenne perché gli ho fatto da padrino poi ho perso il conto. Gli altri, ovviamente, avranno da zero a tredici anni» rispose il Sappe guardandomi negli occhi per studiare la mia reazione.
La mia risata scaturì immediatamente «Ahahah, otto o nove marmocchi in casa che piangono, corrono, urlano, giocano... ho capito perché Ettore se l'è data a gambe, sei un genio amico mio!»
Era l'occasione giusta per ordinare dello spumante.
Quando il cameriere portò la bottiglia, versai e alzai il calice: «Alla partenza dell'ospite indesiderato!»
«Cin cin!»
Degustammo il prezioso nettare, raro da queste parti e poi dissi: «Ora finalmente posso riprendere possesso della mia casa».
«Non penso proprio» intervenne il Sappe.
«Perché?» chiesi con aria preoccupata.
«Non credo che, a questo punto, sia facile mandare via Makotsi e famiglia dalla tua casa, mi ha detto che ci si trova benissimo».
Non riuscii a ribattere come avrei voluto «Ma... come... cosa?»
«E poi, insomma, avevamo deciso di occuparci per prima cosa di Ettore, e siamo riusciti a mandarlo via...prima il ragno. poi la vespa, ricordi?. Dai finisci il vino che torniamo a Shella!»

(...continua?)

TAGS: racconti kenyaitaliani kenyamarco bigisappe malindi

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