L'ANGOLO DI FREDDIE
20-04-2023 di Freddie del Curatolo
Se in Italia abbiamo avuto i cantautori, sensibili ed attenti cronisti in versi dei nostri tempi, o cantori del cuore e delle vicende umane, il Kenya ha attraversato una storia musicale ben diversa.
Per secoli l’Africa subsahariana ha vissuto di canti tribali e racconti filastroccati che tendevano ad esaltare soprattutto la vita rurale, le abitudini ancestrali ed il passare delle stagioni, scandito dagli eventi dell’esistenza terrena: nascite, matrimoni, funerali. Le canzoni del raccolto, quelle dell’invocazione alla pioggia, i peana per gli antenati, quelli per proteggere dai cattivi presagi.
L’arrivo dall’Europa di nuove sonorità, legate allo swing e alla musica popolare, hanno insinuato nei musicisti dell’Est Africa un nuovo modo di gestire la forma canzone. Essa poteva anche far ballare, creare situazioni romantiche, divertire. Insomma, in una sola parola: intrattenere.
Nascono così, negli anni che portano all’indipendenza del Kenya, le prime orchestrine, i gruppi che trasmutano in forma “pop” le musiche tradizionali del Lago Vittoria (Benga) e dello Zaire (Lingala).
Uno di questi musicisti, che può essere considerato il primo vero cantautore keniota, si chiamava Fadhili Williams.
Nato sulle colline di Taita e vissuto a Mombasa, è l’autore della più famosa canzone swahili di tutti i tempi, interpretata tra gli altri anche da star internazionali come Miriam Makeba ed Henri Belafonte. Si tratta di Malaika.
La leggenda narra che durante un viaggio in treno da Mombasa a Nairobi, Fadhili conobbe un uomo disperato perché la famiglia della fidanzata gli aveva negato la possibilità di sposarla, in quanto lui non aveva i soldi per la dote da versare. Questo avrebbe ispirato al Johnny Cash africano la canzone d’amore più famosa del continente.
Melensa ed appassionata suite, rappresenta per la sua melodia soave, un simbolo della musicalità della lingua swahili e della dolcezza della gente della costa keniota.
Se però analizziamo bene il testo, appaiono anche altri elementi che chi frequenta il Kenya conosce bene: la frustrazione della povertà e l’importanza di poter offrire a una donna un futuro migliore… ma poi siamo sicuri si trattasse di una donna…dato che la traduzione di “Malaika nakupenda malaika” è “Angelo, io ti amo Angelo”? Va bene, l’angelo secondo la tradizione è un essere asessuato e la traduzione letterale dal kiswahili del nome “Malaika” potrebbe non essere così legata alla figura celeste. Di fatto, in Italia abbiamo anche il nome “Angela”, mentre nell’Africa orientale non esiste “Malaiko”.
Ma chissà, chi ci dice che da uno spunto vero, Fadhili non abbia voluto lanciare una provocazione ante-litteram su uno degli argomenti che ancora oggi nel Terzo Millennio in Kenya, così come in Uganda ed altre nazioni africane, sono letteralmente tabù?
In ogni caso, Fadhili Williams è morto nel 2001, lasciando in eredità oltre 200 canzoni e senza avere mai fatto outing.
Il testo originale recita: “Malaika, nakupenda malaika/ Naimi nifanyeje kijana mwenzio/ nashindwa na mali sina we/ ningekuoa malaika.
Pesa zasumbua roho yangu/ nami nifanyeje, kijana mwenzio/nashidwa na mali sina we/ningekuoa malaika.
Kidege, hukuwaza kidege/ ningekuoa mali we, ningekuona dada/ nashindwa na mali sina we/ningekuoa malaika.
Traduzione (libera): Angelo, io ti amo Angelo. Io ti amo, Angelo. Ma come posso fare, amoruccio mio? Non possiedo alcuna ricchezza.
‘Sto problema dei soldi mi sta attanagliando il cuore. Cosa posso fare, amorino?
Non c’ho una lira, Angelo! Ti sogno sempre, uccellino. Ti vorrei sposare, sorella.
Ma non ho il becco di un quattrino, non posso, Angelo.
L’aspetto più importante della poetica canzone che avete appena gustato, a parte le malizie afro-italiane, afro-disiache e afro/a/*+, è che Fadhili Williams ha aperto un’importante breccia keniana verso la canzone d’autore.
Basti pensare a Nabil Salsui, autore di “Karibuni Kenya” e di altre ballate che magnificano una madre terra divenuta da poco libera, canzoni che come la “This land is my land” del songwriter americano Woody Guthrie, portano in dote il sogno realizzato dell’indipendenza come speranza per un futuro migliore per tutti. Più sofferto e introspettivo il Re del Benga, Daudi Kabaka, noto per la sua “Pole Musa”, storia di una moglie ridotta male dalle continue percosse di un marito ubriaco. “Mi pesti come un asino” recita una strofa. “Un tempo ero bella, ora porto i tuoi segni sul viso, trovati una moglie più giovane e bella da rovinare”. Un testo impegnato e tragico, antesignano delle denunce al maschilismo imperante, che ricorda le storie “maledette” dei primi grandi bluesman neri americani del Tennessee e del Missouri, alla Robert Johnson di “Hellbound on my trail”.
In poco tempo Williams, Salsui e Kabaka comprendono di non essere soli, si è creato un movimento che influenzerà molti altri strimpellatori più o meno capaci e intraprendenti, senza dover citare i "Them Mushrooms", gruppo pop che mai avrebbe potuto pensare che la loro "Jambo bwana", con un giro di accordi che nemmeno Albano e Romina e un testo da seconda elementare, sarebbe diventata un acclamato inno per turisti.
Le canzoni "serie" raccontano di liti per l’usucapione di terreni senza un proprietario ufficiale (come nella “Zirichiltagghia” sarda di Fabrizio De André), parabole su sfruttati e sfruttatori utilizzando la metafora degli animali (alla maniera latina del Fedro di “Lupus et agnus”, che in Kenya diventa “Simba na swala”, il leone e l’antilope) o di cooperazione, come nella folksong giriama più famosa: Hinde (andiamo) in cui il cantore invita gli amici (Kazungu Wa Fujo che potremmo tradurre “Ciccio Pasticcio”, Charo il leone e Karisa l’elefante a costruire insieme una casa con annesso store. Una filastrocca in cui si aggiungono gli elementi per edificare, che ricorda la circolarità di “Alla fiera dell’est” di Branduardi. Andandola a scoprire, la canzone keniana non è poi così banale, leggendo tra le righe della semplicità del vivere e tra quelle di un pentagramma essenziale, incerto e pieno di sorprese.
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