L'ANGOLO DI FREDDIE
31-03-2024 di Freddie del Curatolo
Dice il profano che in Kenya una Pasqua vale l’altra, che come sempre il sole sorge alle 6.21 e tramonta alle 18.26, i santi del weekend sono Venerdì (un parente bantù) e un certo L. Dell’Angelo.
A Malindi e Watamu però c’è una differenza spropositata tra la Pasqua Alta e la Pasqua Bassa.
Non si tratta di anticipare la resurrezione di Gesù, anche perché da queste parti non abbiamo problemi ad attendere qualsiasi cosa.
La Pasqua “pole pole” semplicemente va fuori stagione e quasi nessuno ne approfitta per farsi una vacanziella sulla costa keniota, mentre quella “haraka haraka” può regalare un ultima scintilla buona per pagare la liquidazione a centinaia di lavoratori stagionali.
In altre mete del Mediterraneo o nel mar Rosso, sperando che i facinorosi Houthi non inizino ad occuparsi di turismo, tra poco farà calduccio e le offerte per la vacanza di una settimana equivalgono al prezzo di un biglietto di sola andata in treno da Sesto Calende a Bassano del Grappa e sono assolutamente concorrenziali con il Kenya ad aprile.
In Kenya, dopo la Pasqua bassa, invece c’è il rischio di pioggia, un’aria di smobilitazione che mette malinconia e soprattutto ci sono tanti residenti che non ce la fanno più e non vedono l’ora di godersi le meritate vacanze.
Un safarino africano, soprattutto.
Ma alcuni malati cronici sognano anche lo shopping in via Veneto o la domenica al Centro commerciale o all’Ikea.
Quindi sulla costa, la Pasqua Alta è una vera sciagura, meglio come quest’anno, chiudere baracca a fine marzo!
Qualche anno fa, prima della pandemia, ad esempio, la Pasqua bassa capitò addirittura a metà marzo. I connazionali vacanzieri traboccavano, la spiaggia di Silversand vantava una buona densità di beach-boy per turista, i molteplici ristoranti accettavano clienti solo su prenotazione, i fornitori di pesce si trasformavano in pusher, per una sniffata di aragosta ti chiedevano quel che a novembre basta per comprarne due chili.
I venditori di case si liberavano con facilità di ville vetuste, mettevano all’asta i moderni appartamenti e promettevano, previo succoso acconto, ogni singola colata di cemento sul terreno keniota. Affari d’oro per gli arredatori, le boutique, gli antiquari, i fruttivendoli e le corpivendole.
Pulmini da safari sfrecciavano ogni mattina verso i parchi nazionali per poi mettersi in coda nel cuore dell’Africa tanto che i leoni si chiedevano se non fosse stato meglio nascere casellante, auto a nolo e taxi riempivano le strade di sano smog assorbito da baobab in astinenza secolare e di notte le discoteche erano alveari ricchi di miele (più che d’acacia, d’ascella) e marmellate umane.
Ballavano i V.I.P. che dopo ore di sole a schermo totale (se non c’è uno schermo da qualche parte quelli non vivono) si concedevano l’aperitivo alla Biennale d’Arte Contemporanea, tra le dritte di una Naomi Campbell e i selfie degli influencer di stagione.
L’Africa fungeva da scenografia, romantica fascinosa esotica misteriosa inquietante paradisiaca rilassante invadente a seconda dei casi, degli stati d’animo e degli stati di provenienza.
Per i residenti italiani quel bordello voleva dire “fieno in cascina”, per i kenioti quel bordello voleva dire “arraffa finchè puoi”.
L’anno dopo, ecco la Pasqua più in là possibile: il sole cerca disperatamente un turista a mezzogiorno per poterne proiettare l’ombra perpendicolare, i pochi villeggianti si sentono disorientati, inadeguati, fuori catalogo e contesto. Spaesati come un catamarano in un eliporto, vagano alla ricerca di un animatore rompiballe, di un beach-boy che li raggiri, di uno spacciatore di marijuana informatore della polizia, per sentirsi finalmente in vacanza.
La spiaggia di Watamu sembra un corso di Palermo cinque minuti prima di un omicidio su commissione, i ristoranti accolgono i clienti come cugini d’Europa di cui attendevano la visita da vent’anni, i fornitori di pesce passano in bicicletta lanciando aragoste nel locale come fossero copie del Daily Nation e raccolgono i cent lasciati sulle pietre all’ingresso. I venditori di case si ubriacano e organizzano feste solitarie ogni sera in una villa diversa, scegliendo tra quelle restituite dopo la prima rata, affittano a famiglie indiane i moderni appartamenti lasciati vuoti e impediscono ogni singola colata di cemento sul terreno keniota. Si riposano gli arredatori, chiudono le boutique, svendono gli antiquari, latitano i fruttivendoli e le corpivendole passano dai salti in discoteca ai saldi di fine stagione. I residenti italiani hanno il sorriso stampato di chi sta fumando ogni giorno un po’ del suo fieno in cascina.
D’accordo, ho esagerato, mi sono lasciato trasportare. In fondo è stata una stagione meravigliosa, da record.
Vi aspettiamo tutti per la resurrezione! Nooo, per una volta non quella del Nostro Signore…quella della costa keniota, a partire da luglio: l’importante non è finire, come cantava Mina, ma venire, come assicurava mio padre.
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