DESIGN
24-05-2021 di Freddie del Curatolo
Un gruppo di designer e architetti keniani parteciperà alla Biennale di Venezia.
E’ la prima volta che uno studio del Kenya viene invitato dalla prestigiosa biennale internazionale di architettura in laguna, e l’occasione è offerta dalle produzioni di Cave Bureau, un’officina di creatività di Nairobi fondata da Kabage Karanja e Stella Mutegi. La mostra “Obsidian Rain” (pioggia d’ossidiana) oltre al padiglione centrale della Biennale ha conquistato le pagine del New York Times, che ha dedicato a Karanja, Mutegi e i loro colleghi un ampio servizio.
Cave Bureau crea installazioni per spazi sociali, ambienti all’aperto o comunque grandi spazi. Per l’opera che dà il titolo alla mostra hanno utilizzato 1600 pietre di ossidiana raccolte alle pendici del monte Suswa, dove Karanja da ragazzo ebbe l’ispirazione per quello che, dopo gli studi di architettura nella Capitale, sarebbe stata la sua professione.
Nelle caverne del Monte Suswa si accorse della magia delle pietre e delle trasformazioni possibili dell’antro primordiale che è stata la prima casa di noi umani.
Ed erano le nicchie, le protuberanze, i varchi, le feritoie di luce gli unici arredamenti. Insomma, la prima architettura d’interni avvenne lì, nelle grotte.
Così è nato Cave Bureau e oggi le stesse pietre diventano ornamenti ma non perdono il loro significato, tramandando la storia e mettendola a confronto con la società contemporanea e i suoi paradossi. Una delle opere pubbliche del gruppo è la “zebra semovente” (The floating zebra”) installata nello slum di Kibera, sulla strada che porta alla discarica di Dandora, uno degli inferni africani della civiltà contemporanea. L’opera è stata studiata come un luogo informale di relax, di sosta per chi ogni giorno macina chilometri ma anche di riflessione per tutti.
Una proposta coraggiosa per Nairobi, che è proiettata in uno sviluppo che in altre parti del mondo è già superato, se non decadente, ma che nei cosiddetti Paesi in via di sviluppo ancora attrae: grattacieli, edifici moderni, freddi “nonluoghi”, come li definisce il filosofo Marc Augè, che possono essere centri commerciali, palazzi multiuffici e zone residenziali anodine e tutte uguali.
Karanja e Mutegi, due quarantenni con alle spalle master in Inghilterra e Australia, hanno cercato di portare le loro idee in patria, ma a livello urbanistico è stato molto difficile. Così per l’edilizia lavorano soprattutto in case private, e particolarmente in Uganda. E grazie a questi lavori finanziano la loro arte creativa.
Da questa settimana Venezia scoprirà la meraviglia della struttura sospesa che reinventa una visione del soffitto delle grotte di Mbai, non lontano da Nairobi.
Le caverne in Kenya non hanno solamente un significato antropologico e paleontologico: anche nei secoli recenti sono stati luoghi fondamentali per le cerimonie rituali e religiose e come nascondigli e basi strategiche per il movimento d’indipendenza dei Mau Mau.
“Luoghi di contemplazione che ispirarono il nascente stato africano – ha spiegato Karanja al New York Times – per questo le loro riproduzioni possono essere considerate luoghi per riunioni e congressi“. All’interno della biennale, altri lavori saranno proposti attraverso gli scatti di un fotografo, anche lui keniano ma da tempo residente in Canada, Osborne Macharia.
Il progetto “Obsidian Rain” è nato dal più ampio programma di ricerca ed esposizione a lungo termine di Cave Bureau, chiamato “Museo dell'Antropocene”. Prende il nome da quella che il National Geographic ha definito "un'unità non ufficiale del tempo geologico", a partire dalla rivoluzione industriale, quando l'attività umana ha iniziato ad avere un impatto sostanziale sugli ecosistemi e sul clima della terra.
Il lavoro architettonico, storico e antropologico dello studio ha incluso tutto, dalla mappatura 3-D delle grotte degli schiavi di Shimoni sulla costa del Kenya, dove gli africani orientali del XVIII secolo erano incatenati alle pareti in attesa del trasporto ai mercati degli schiavi di Zanzibar, a un video che esplora l'estrazione geotermica e lo spostamento del popolo Maasai nella Rift Valley.
"Stiamo solo cercando di riflettere su quel termine geologico, l'Antropocene, la nuova era dell'uomo - ha detto il Karanja al New York Times - Cercando di guardare, ovviamente, l'era coloniale, la storia di questa epoca in cui viviamo che è stata il fattore determinante di dove siamo come civiltà".
(foto dal New York Times)
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