Editoriali

EDITORIALE

Paradossi e motivi del Kenya omofobo

Il no ai diritti LGBTQIA+ mette d'accordo tutti

04-03-2023 di Freddie del Curatolo

Con una sentenza che in molti si sono affrettati a definire storica, qualche giorno fa la Corte Suprema del Kenya ha ribaltato dopo 10 anni la decisione della magistratura di allora di impedire a gruppi organizzati ed associazioni della comunità che oggi chiamiamo con l’acrostico LGBTQIA+ (Lesbiche, gay, bisessuali, transessuali, queer, intersessuali, asessuali e altro) di riunirsi ed agire per la tutela e la promozione dei propri diritti.
Di fatto, quindi, pur restando l’omosessualità illegale in Kenya, e i rapporti conclamati punibili fino a 14 anni di reclusione (un po’ più leggeri dell’Uganda, dove è previsto l’ergastolo) almeno a Nairobi e dintorni si può sventolare la bandiera arcobaleno e chiedere rispetto, pur stando attentissimi a non scambiarsi un bacio davanti all’obbiettivo di un telefonino o di testimoni bacchettoni.
Pronta la replica del mondo politico e religioso keniano, così come del sempre (ahimè) puntuale popolo dei social. I vertici di questo paese rimangono profondamente ancorati alle concezioni religiose che riuniscono il cattolicesimo più conservatore e l’islam moderato ma pur sempre islam.
Le congregazioni religiose in Kenya, sia le tante protestanti che le derivazioni africane dell'apostolica romana, in effetti sembrano più vecchie sette americane che altro e come lobby che interagiscono tra loro, sono tutte ben rappresentate sul suolo e nel substrato nazionale.
Così ecco che, nelle dichiarazioni dei leader, la ferma condanna della sentenza della giustizia che apre quantomeno alla libertà di opinione, è oggetto di critiche feroci sia da parte del presidente William Ruto, sia nelle parole ferme del capo dell’opposizione Raila Odinga. Dopo sei mesi di battaglie feroci, ricorsi, minacce di rivoluzione, cortei non autorizzati, scippo di parlamentari e via dicendo, i due contendenti delle scorse elezioni si trovano finalmente d’accordo sullo stesso argomento. Purtroppo l’argomento è la privazione di libertà dell’individuo.
“Sono un uomo di Dio. Anche se rispettiamo la Corte Suprema, le nostre religioni e culture non permettono a una donna di sposare un'altra donna o a un uomo un altro uomo - ha detto ieri Ruto -, Nessuno in questo paese può scendere in piazza per chiedere che sia permesso loro di sposarsi. Questo può accadere altrove, ma non accadrà mai in Kenya”. Addio speranze per chi sognava un gay pride nel Masai Mara, tra elefanti e “pride” di leoni maschi che, come evidenziò un video divenuto virale e deplorato dagli stessi che oggi si scagliano contro i magistrati, non disdegnano di darsi improduttivo piacere tra loro.
Dell’identico parere anche Odinga, per il quale “non è compito della magistratura fare le leggi. La Costituzione riconosce la separazione dei poteri e l'articolo 45 afferma che ogni adulto ha il diritto di sposare una persona di sesso opposto sulla base del libero consenso delle parti”.
Quel che a volte salva il Kenya (e che lo crocifigge, sotto tanti altri aspetti) è che è tutt’altro che un paese talebano: la distanza tra la legge e la sua applicazione è simile alla differenza tra miopia e patologie cardiache (occhio non vede, cuore non duole). Specialmente nella capitale Nairobi la comunità omosessuale ha i suoi ritrovi, senza timore di retate continue e certi ambienti artistici ed intellettuali sono pieni di giovani che hanno già fatto pubblicamente outing.
Ricordiamo il caso suscitato dal film di qualche anno fa “Rafiki”, della regista keniana Wanhuri Kahiu, premiato con una menzione speciale al Festival di Cannes. Dapprima fu vietato sul suolo nazionale per “la promozione di valori anti keniani” (la relazione lesbica tra le due protagoniste), poi venne ammessa la proiezione per una sola settimana in un’unica sala cinematografica di Nairobi, per cui molti pensarono alla possibilità di attentati dinamitardi per eliminare un po’ di “anti keniani” tutti insieme.
Andò decisamente peggio due anni dopo, nel 2021, al documentario “I am Samuel” di Peter Murimi, che mostrava un illegalissimo matrimonio gay celebrato nel paese. Artisti coraggiosi in un clima nazionale piuttosto surreale, dove da una parte, giustamente, la prostituzione è ammessa e le “lavoratrici del sesso” hanno un sindacato che le tutela e non, come in Europa, una mafia pappona che ci lucra sopra, spesso investendo i ricavati in droga e armi e finanziando il malaffare, dall’altra due persone dello stesso sesso non possono scambiarsi l’amore che sentono o un ragazzo non può indossare abiti femminili senza rischiare di essere linciato. E’ il Kenya delle doppie velocità di crescita e di consapevolezza, delle culture ancestrali che si scontrano con il voler (e poter) essere al passo con i tempi, dove si è passati in pochi decenni dalle scuole all’ombra degli alberi secolari e dalla saggezza degli anziani dei villaggi come regola, alla cultura globale di internet. Dove solo ora si riesce a far punire l’infibulazione e ancora in certe tribù si permette lo “jus primae noctis”, dove si può ancora condannare a morte ma di fatto da 40 anni non ci sono esecuzioni.

TAGS: lgbtqdirittigayomosessualità

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