EDITORIALE
03-05-2021 di Freddie del Curatolo
All’indomani della chiusura dello storico Driftwood Beach Club, hotel e ritrovo non solo di residenti e turisti di origine anglosassone, ma di tutta la comunità malindina e turisti internazionali fin dal 1963, viene naturale considerare come stia cambiando Malindi e come il lungo, estenuante periodo pandemico abbia accelerato certi processi di mutamento delle dinamiche turistiche di cui già da anni si avvertivano i prodromi.
Elaborato (personalmente non ancora...) il lutto dell’oasi senza tempo di Silversand, viene il momento di esaminare con lucidità cosa sta succedendo, partendo proprio da Malindi.
Premesso che il Driftwood non è defunto ma è stato venduto e subirà un’evoluzione indispensabile di questi tempi, diventando un’area residenziale di appartamenti in vendita e forse anche in affitto, viene da pensare alla situazione in cui versano altre strutture abbandonate o in stand-by aspettando tempi migliori, che comunque è importante capire che saranno tempi molto diversi dal passato.
Malindi stessa non può (e non dovrà) essere quella di un tempo: non solo non c’è più “quella” Malindi, ma non c’è più quel tempo, e non è certo solo una questione di Kenya o di turismo.
Si dice che Malindi non sia più la “colonia italiana” che ha prosperato e fatto prosperare tanti keniani fino a una decina d’anni fa, e questo può anche non essere un male se ci fosse una visione programmatica che in Africa è sempre difficile trovare. Si dice che sia “un paese per vecchi”, parafrasando il celebre film dei fratelli Cohen. Questo può essere già più un problema, dato che anagraficamente le persone anziane sono a scadenza come i prodotti freschi e il ricambio delle generazioni geneticamente modificate di turisti non la vedono come un’attrazione turistica ma semmai come cittadina di servizi e hub aeroportuale per la nuova destinazione di vacanze, Watamu o per la futuribile Mayungu.
Eppure Malindi ha ancora molte carte da giocare, in un indispensabile rinnovamento.
Un grande saggio del turismo locale, Philip Chai, ex manager del Billionaire e direttore d’hotel fin dagli anni Settanta, scommette sul turismo residenziale e d’affari. Appartamenti, hotel “mordi e fuggi”, negozi, un centro commerciale che funzioni, buoni ristoranti (e per quelli siamo da sempre bene attrezzati). Turismo che può diventare anche una deriva per le famiglie, quindi proponendo anche “facilities” per i bambini, come parchi di divertimento ed altro.
Chi in questo momento è in grado di raccogliere la sfida del “residential tourism”? Sicuramente chi ha soldi da investire, chi conosce meglio questo paese e le sue pieghe anche nascoste, chi sa vedere oltre e capire la società, senza snobismi, nostalgie o voler imporre le proprie scelte e il proprio carattere. L’identikit porta inevitabilmente agli investitori di Nairobi, e non a caso sono loro ad aver rilevato il Driftwood. Ma c’è anche qualche imprenditore italiano intelligente che da qualche anno, anche a Malindi, ha cambiato direzione e si rivolge a quel tipo di clientela, servendo anche un assist a tutta la cittadina, pure quella istintivamente refrattaria e volutamente retrograda.
Roberto Marini con il suo Ocean Beach Resort, Antonio Colleluori con il Leopard Point e Francesca Biancacci con il Lawfords si sono messi in maniera convinta in direzione del nuovo vento che tira, così come hanno fatto diversi ristoratori italiani, adattando i loro storici menu alle esigenze dei nuovi frequentatori della cittadina. Molti di loro sono anche più felici, nonostante i tempi avari di soddisfazione e la nostalgia degli anni d’oro.
Utile sarebbe anche che passasse la legge che il Ministro del Turismo Najib Balala aveva promesso qualche anno fa: via alle demolizioni degli scheletri di hotel e palazzi fantasmi che da anni giacciono inermi e orribili alla vista, per via di ingiunzioni, dispute o fughe improvvise e alle aste per riacquistarli. Potremmo veder risorgere, con il nuovo spirito residenziale a cui Malindi dovrà adeguarsi, ruderi come il Tamani Jua, il Coconut, il Dorado, il Bush Baby. Dare lavoro a tanti keniani e far veleggiare la destinazione verso nuovi mari e nuovi attracchi, senza dover fare lo slalom tra i relitti.
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