REPORTAGE
23-10-2024 di Michele Senici
L’uomo con la maglia rossa batte la mano sulla panca facendomi segno di sedermi.
La panca è una tavolaccia di legno levigata dai tanti culi che ci si sono accomodati sopra e se ne sta appoggiata su due tronchi conficcati in quello che doveva essere stato un marciapiede.
Quel pezzo di terra e cemento che fu Il marciapiede se ne sta al lato della strada che taglia Likoni e che nasce dal punto in cui il traghetto tocca la baia.
Alla mia destra il cielo è ancora viola, a sinistra e di fronte si staglia già dipinto di blu notte con la luna pienissima di metà ottobre appoggiata sull’angolo del totem della Total.
Sotto e tutto attorno il mondo esplode.
Su quella panca sorseggio un caffè swahili prima di tornare a casa, impegnato a non ustionarmi la lingua col caffé e i piedi con le braci che l’hanno bollito per ore.
Come sempre quando mi accomodo in questi contesti gli sguardi attorno a me sono contrastanti e confusi. Un uomo passa e urla al ragazzo del caffé: “huyu ni mzungu kweli?” - questo è davvero un mzungu? - e io rispondo “kabisa” - certamente - voltandomi solo di tre quarti e allungando un poco la a finale, che fa così “mtu wa pwani”, uno della costa.
Qualcuno sogghigna, qualcuno ride, altri schioccano la lingua due volte sul palato.
Continuo il mio caffè e penso al disastro e alla meraviglia che è Likoni.
Fa senza dubbio comodo nominarla Periferia di Mombasa: semplifica la collocazione geografica.
Non è sconveniente definirla Sobborgo: ne chiarisce la gerarchia con la città. Tuttavia Likoni non è né periferia, né sobborgo né tantomeno un quartiere. Likoni è tragedia e possibilità, freno e motore.
Basta voler guardare qualche centimetro sotto la superficie.
Appoggio la tazza di vetro mezza piena alle labbra e sulla strada sfrecciano uno dopo l’altro dei Land Rover da safari con sopra dei turisti. Loro non incrociano il mio sguardo, non mi vedono ma io li vedo chiaramente. Le loro macchine corrono veloci come se volessero evitargli la vista di quell’angolo infernale, tendando di collegarli alla spiaggia dal safari. Loro tuttavia guardano voraci, li vedo riempirsi gli occhi di tutto quel rumore, quei “dala, dala, kiberiti kumi, charger mia moja, karibuni customer” urlati da altoparlanti sgangherati, appoggiare le dita ai vetri del fuoristrada per afferrare quei cumuli di vestiti di quinta mano che magari sono stati loro qualche stagione fa, aprire la bocca stupiti come a voler inghiottire quel fiume di bestiame e uomini che tornano a casa dopo le fatiche del giorno.
Guardo loro e guardo me e mi sento così privilegiato nell’avere conoscenza di questo luogo che per loro non sarà che un’esplosione di domande tra l’impeccabile bianco della sabbia e il violento rosso dello Tsavo. Non c’è luogo insignificante su questa terra e anche se talvolta costa fatica sarà sempre possibile assegnare a ogni angolo del mondo una storia e dunque un’identità. Per dirne una, sul finire del 1500, a Likoni si fermarono gli Zimba, una tribù cannibale nomade e predatrice che fu determinante nello stabilire le sorti della gente di Mombasa durante i conflitti ottomani-portoghesi dell’epoca.
Sotto i miei piedi che sorseggiano caffè bollente con cardamomo, cannella e zenzero qualcuno potrebbe aver gustato una spalla portoghese alla brace o forse una tartare di turco.
Esserne consapevole, seppur sentendo in bocca un sapore che mischia orrido e curiosità, cambia la mia prospettiva su questa terra. Likoni non è per me un putrido luogo che fagocita verdure e pesci destinati a marcire, droghe sintetiche, alcool di dubbia e pericolosa provenienza e prostituzione.
Non è più solo il luogo dove molti dei bambini che seguo per lavoro si vedono l’infanzia calpestata tra abbandoni, stupri e botte. Non è ormai più solo il posto dove tenersi stretti persino gli organi per paura che ti vengano rubati. È tutto questo ma anzitutto un luogo che genera domande e il desiderio di guardare sotto quel tappeto di polvere, siringhe, disperazione e sporcizia. Per trovarci una terra bistrattata e consumata, relegata a essere luogo di passaggio, glorificata a luogo di guadagni in realtà scadenti, le cui spiagge sono state depredate poco interessanti e il cui suolo è stato divorato dal corallo per tirare su resort e ville. Mombasa morirebbe senza la forza umana di Likoni e Likoni crollerebbe senza le opportunità offerte da Mombasa. Senza un ponte che le colleghi - almeno per ora - le due sono l’altare e la fogna dell’altra.
E il Kenya oggi è anche Likoni e anche Likoni oggi fa il Kenya e il mio amore per questa Nazione non può che costruirsi anche nel mio amare Likoni odiandola. Mai più potrei dirmi innamorato di questo Paese senza includere e ammettere di aver apprezzato quel caffé speziato bevuto sul ciglio dell’inferno.
Michele Senici, 1993. Educatore, insegnante, coordinatore di progetto. Ho aperto Casa Hera a Diani perché non sapevo dove continuare la mia vita. L’ho capito ora? Certamente no, ma va bene così, almeno osservo, penso, scrivo.
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