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Il Sappe e l'ospite indesiderato

5° puntata completa delle storie malindine di Ric Giambo

11-02-2021 di Marco "Sbringo" Bigi

«Che aria da funerale, che ti è successo amico mio?» mi chiese il Sappe quando lo raggiunsi al bar alle dieci in punto.
«Lascia stare, non ne posso più» risposi con aria desolata sedendomi di fronte a lui e cercando con lo sguardo un cameriere per ordinare l’agognato caffè.
«Fammi indovinare… - disse guardandomi negli occhi – riguarda quel tuo simpatico amico che è venuto a trovarti, com’è che si chiama, Ettore?»
«Esatto. Simpatico come un riccio di mare nel costume da bagno - risposi acido – e poi “amico” è una parola grossa, diciamo conoscente… avevamo lavorato insieme da ragazzi per una stagione in un villaggio turistico alle Maldive. Mmhh, quando sarà stato - rimasi qualche secondo a pensare - circa venticinque anni fa, e poi da allora non ci siamo più visti, né sentiti fino a due settimane fa, quando quello mi appare su Messenger e mi dice: “Vecchio Ric, come stai? Sono a Nairobi, se vengo a trovarti a Malindi per qualche giorno mi puoi ospitare?"»
«E tu, ovviamente...».
«Da bravo scemo gli ho detto - Ma ceeerto! “Sarà un piacere rivedersi e raccontarcela un po'” - E ora sono due settimane che quella piattola si è piazzata da me e non accenna a levarsi dalle palle».
«Com’era quel detto? “Dagli amici mi guardi Iddio che dai nemici mi guardo io”… - declamò il Sappe e poi, con piglio da curioso continuò – dai racconta, è un po’ di giorni che non ci vediamo».
Sorseggiando il caffè che, secondo una teoria del Sappe, ha su di me un inaspettato potere calmante, forse perché ne sono drogato, proseguii nel racconto: «All’inizio, tutto bene. Hai presente quando ti ritrovi con un vecchio commilitone o un compagno delle elementari? “Ti ricordi di quello? E quell’altro che fine ha fatto? Gli scherzi che facevamo! E quella volta che ci siamo trovati in mezzo al mare e il motore della barca si era rotto? Quante avventure...»
«Sembra un buon inizio...» arguì Sappe.
«Sì, purtroppo, gli interessanti argomenti di conversazione andarono a scemare nel tempo di una cena e la sua vera faccia si palesò già dal giorno successivo».
Il Sappe aggrottò la fronte: «E cioè?»
«Ettore, per come me lo ricordavo era un ragazzo allegro e pieno di vita ma ora è triste, malinconico, stanco della vita, le cose in Italia gli andavano male ed è venuto in Kenya a cercare una soluzione ai suoi problemi. Quando ha incontrato me ha trovato un sostegno, un cicerone, un autista che lo porta in giro, che gli spiega i segreti di Malindi ma purtroppo, la sua depressione è così forte da renderlo un incontentabile, uno al quale non va bene nulla...».
«In che senso?»
«La spiaggia di Malindi secondo lui fa schifo, la marea è troppo alta o troppo bassa, ci sono le alghe, vuoi mettere con le spiagge di Santo Domingo? A Watamu, che tutti considerano una perla di bellezza per le sue splendide spiagge e la laguna... i Beach Boys gli danno fastidio, a Che Chale, che per me è uno dei posti più belli e selvaggi raggiungibili in mezz’ora di auto, c’è troppo vento. Le rovine di Gede sono una palla tremenda, in Italia abbiamo musei a cielo aperto molto più interessanti. E poi che schifo il cibo swahili e allora lo porto in un ristorante italiano e gli spaghetti sono scotti e il vino costa troppo. Lo mando a fare un safari allo Tsavo con una guida bravissima ma non è come nei documentari in TV dove si vede un animale dopo l'altro. Per non parlare delle ragazze, dato che la sua donna in Italia lo ha mollato – che altro poteva fare quella poveraccia? - voleva sperimentare la fauna locale…»
«E dove lo hai portato?»
«Nei due locali che conosci benissimo, amico mio: prima al Fermento ma era troppo presto e non c’era ancora nessuno, siccome non avevo voglia di tirare notte fonda cuocendomi le orecchie con l'electronic dance, l’ho portato allo Stars & Garters, che quella sera era pieno di splendide “Studentesse di Nairobi” come le definisce il nostro amico giornalista».
«E lì finalmente avrà trovato pane per i suoi denti».
«No! - dissi scuotendo la testa – non gli piacciono le donne di colore. Mentre tornavamo a casa in macchina, gli dissi “Caro Ettore, se speri di trovare a Malindi giovani ragazze bianche, carine, single e pronte a cascarti tra le braccia, hai proprio sbagliato posto!»
«Ma la cosa più terribile…» m’interruppi perché notai che il Sappe aveva sul viso un’espressione per nulla contrita, come mi sarei aspettato, ma bensì divertita.
«Vai avanti» m’incitò soffocando una risata, ed io con un sospiro continuai.
«Hai  presente quelle piccole ma potenti casse acustiche che vanno ora di moda che si collegano via bluetooth ai cellulari e che sparano a gran volume musica?»
«E come no? Purtroppo anche i kenioti stanno cominciando a usarle senza ritegno. Ascoltassero almeno buona musica, invece no. BumBum meccanico, un rapper con l’autotuner e due accordi ripetuti fino alla nausea».
«Ecco – continuai annuendo – Ettore è un fan scatenato di un cantante che, fino a qualche tempo fa, mi lasciava indifferente ma che ora, a causa sua, non riesco più a sopportare! Lo ascolta prima di colazione, dopo colazione, prima di pranzo, dopo pranzo, a merenda, prima di cena, dopo cena!»
Non mi ero reso conto che stavo urlando e che tutti gli avventori del bar si erano voltati verso di me.
Abbassai il tono di voce e terminai la mia filippica quasi sussurrando: «Non ce la faccio più!»
«Quale cantante?» mi chiese Sappe.
«Ligabue!»
«Cavolo! Ora capisco perché sei così nervoso».
Il cameriere venne a ritirare le tazzine e a pulire il tavolo.
Ordinai dell'acqua.
«Sappe, dai aiutami tu a liberarmi da questo incubo!»
Per un minuto rimanemmo in silenzio mentre io tamburellavo con le dita sul tavolo e il mio amico rifletteva.
«Quando ti avevo detto di non prendere in affitto un alloggio con più di una camera da letto non mi ascoltasti…» riprese con un tono da maestrino.
«E chi se lo immaginava - ribattei - può capitare che arrivi un parente o un amico. Oltretutto c’è un altro problema. Ettore un giorno ha perso il portafoglio e sono certo che è successo in spiaggia, sfilandosi i pantaloni perché è uno di quelli che indosserebbero i blue jeans anche in una sauna. Invece ha dato la colpa alla mia bravissima donna delle pulizie, voleva addirittura che la portassi in polizia. Io mi sono rifiutato, ma lei si è offesa e si è licenziata. Ora ne devo cercare una nuova, non è che per caso...».
Sappe aveva già capito tutto, ma acuì il cipiglio.
“Sì...va bene, ma vediamo di risolvere un problema per volta. Come dicono i giriama, se ti morde un ragno e poi ti punge una vespa, non curare i due bozzi insieme, altrimenti diventeranno amici e torneranno insieme”.
“Hai ragione – annuì – occupiamoci dell’ospite sgradito”
«Assolutamente. Qui in Africa, l’unica gioia che ti può dare un ospite è di restituirti il tuo spazio vitale levandosi dalle palle, per il resto è solo un succhiare la tua energia».
«Bravo! - ribattei seccato - ti ringrazio per la "perla di saggezza delle dieci e venti" ma potevi darmela prima!»
«Per toglierti il gusto di scoprirlo da solo? - continuò con un tono sempre più ironico - lo sai, mio giovane discepolo, che le cose che si imparano sulla propria pelle non si dimenticano più. Comunque, per risolvere la situazione ci vuole Makotsi» sentenziò il Sappe estraendo da una tasca dei pantaloni il suo vecchio Nokia.
«Makotsi l’elettricista? Che cosa ci azzecca? Non si è mica fulminata una lampadina...»
«Non ti preoccupare» e mi zittì con la mano mentre, partita la chiamata, avvicinava il cellulare all’orecchio.
Della conversazione in swahili che ebbe con Makotsi, capii solo: rafiki (amico) e sawa sawa (va bene). Con l’aria soddisfatta pose fine alla telefonata e mi disse «Tutto sistemato.
Quello che devi fare adesso è andare a casa tua, inventare una scusa col tuo amico e preparare una borsa con quello che ti serve per qualche giorno. Verrai a stare da me, nel frattempo ci penserà Makotsi a disinfestare la tua casa».
Strabuzzai gli occhi e ripetei, quasi incredulo: «A stare da te?»
Ero rimasto esterrefatto: non avevo mai visto casa sua, non mi ci aveva mai invitato, nemmeno per prendere un tè. Un velo di mistero aleggiava da sempre intorno alla casa del Sappe e questa inaspettata concessione mi fece sentire un privilegiato.
Shella, che si pronuncia Scèla, è un antico quartiere di Malindi nel quale, fra le mille influenze imposte dai vari dominatori, provenienti dai luoghi più disparati, e che si sono avvicendati nel corso dei secoli, è quella araba che a tutt’oggi si fa più sentire, come del resto è avvenuto in buona parte delle coste africane e asiatiche che si affacciano sull’Oceano Indiano.
A causa del labirinto di vicoli nei quali è facile perdersi, è raro che un turista si addentri nei meandri della vecchia Malindi.
Io stesso non c’ero mai stato prima che il Sappe mi ci trascinasse per andare a mangiare pojo e sima (lenticchie e polenta) al ristorantino di Mansur, consentendomi così di intravedere un dedalo di strade strette, sfilando accanto a case basse, vecchi seduti nel patio a osservare la gente che passa, di donne che preparano da mangiare all’aperto su braci accese, mentre orde di bambini corrono festanti da tutte le parti e le voci dei Muezzin si diffondono a ore precise dagli altoparlanti delle numerose moschee.
Il lusso delle case, quasi tutte a un solo piano, è evidentemente proporzionale al reddito dei proprietari, che è mediamente molto basso, in quanto rare sono le porte intarsiate e i tipici archi a punta, mentre molto più frequenti sono i tetti in lamiera e le pareti scrostate di case abitate comunque con grande dignità.
Passeggiando per Shella non si avverte per nulla pericolo, anzi, grandi sorrisi, saluti, molta curiosità, qualche parola in inglese dai più giovani che hanno studiato e l’immancabile “ciao” che è ormai parte della lingua locale, quasi quanto il famoso“jambo”. Più riservate sono ovviamente le donne che, da sotto il velo, si limitano a lanciare agli sconosciuti occhiate della durata di un battito di ciglia, che sembrano penetrarti come i raggi di una radiografia.
Seguendo le istruzioni datemi dal Sappe, parcheggiai il Pajero nella piazza senza nome sulla quale si affaccia la caserma dei Vigili del Fuoco e mi addentrai a piedi, con la mia borsa a tracolla, nella cosiddetta Shella Road, a quei tempi sterrata ma oggi finalmente lastricata, che arriva fino al mare.
«Vai avanti per circa duecento metri e poi svolta a sinistra in un piccolo cortile. Se in fondo ad esso vedi una palazzina gialla di due piani, è lì che devi andare» mi aveva detto al telefono.
Raggiunsi il cortile e rimasi spiazzato dalla visione di una casa fatiscente che, per quanto era disastrata, mi fece venire in mente le immagini dei notiziari di una Beirut bombardata nei suoi tempi peggiori. I muri incrostati lasciavano intravedere, sotto l’ultima mano di giallo, ere geologiche di pitture rosse e blu, addirittura alcune macchie preistoriche di verde e di viola rivelavano pennellate di antichi imbianchini. Muratori probabilmente ubriachi o semplicemente incapaci avevano eseguito dei lavori mollati a metà, come ad esempio una trave di cemento a circa tre metri d’altezza che spuntava un po' storta dalla base di un terrazzino e che finiva nel nulla. Nel piccolo atrio un’enorme tavola di legno pendeva, inchiodata alla parete in qualche modo, quasi crollando per il peso di diversi contatori di corrente attorniati da gordiani grovigli di fili elettrici. Una porta chiusa da un'inferriata rivelava la presenza di un appartamento al piano terra, sulla destra si apriva un vicolo, che dava verso un altro inaspettato cortile, dal quale apparvero una capra curiosa e una gallina insolitamente starnazzante. Infine una scala laterale, dai gradini molto irregolari, s’inerpicava sulla sinistra, ed era lì che Sappe mi aveva detto di dirigermi per raggiungerlo nella sua “reggia” al piano superiore.
Mi ritrovai di fronte a una porta di ferro nera nella quale c’era un buco, grande abbastanza da far passare una mano, che lasciava intravedere un lucchetto che pendeva dall’interno. Ingegnoso sistema – pensai – per utilizzarne uno solo.
Bussai e sentii la voce ovattata del Sappe che mi urlò: «Un attimo, arrivo!»
Le fronde di un albero, colme di fiori gialli, ombreggiavano il pianerottolo sul quale mi trovavo e, mentre attendevo che il Sappe venisse ad aprirmi, fui colpito dalla palazzina confinante, dal puro stile arabo, che sembrava uscire da un racconto delle Mille e una Notte.
Da quell'altezza si riusciva a intravedere il piccolo cortile interno, ove un anziano con la tunica bianca era seduto a gambe incrociate su un gradino a bere un tè.
Mentre il Sappe armeggiava col lucchetto, il Baba alzò lo sguardo verso di me e mi fece un cenno con la mano al quale risposi sorridendo.
Con un rumoroso “Caclack” la porta si aprì e il Sappe mi diede il classico benvenuto swahili: «Karibu Rafiki!»
Un corridoio con una lampadina penzolante dal soffitto si spingeva, sulla destra, verso il terrazzino con la trave monca che avevo visto dal cortile, da lì partiva un’altra scala che probabilmente portava al terrazzo soprastante. A sinistra, invece, c’era un ballatoio sul quale si affacciavano cinque o sei porte. Quello scorcio ricordava tantissimo le case di ringhiera della vecchia Milano cantata da Enzo Jannacci e da Nanni Svampa.
Sappe si diresse a destra, verso l’unica porta che si trovava in quella direzione e mi fece cenno di seguirlo dicendomi: «Questo è il mio regno».
Entrai, mi guardai intorno e scoppiai a ridere «Ma questa, ahaha, è una roulotte!»
Si trattava di un minuscolo monolocale con un arredamento minimale. Sotto la finestra c'era un tavolo a scomparsa, sotto il quale intravedevo alcuni sgabelli di legno che avevano anche la funzione di sostenere uno dei due materassi appoggiati a libro su un divano che, grazie a questo artificio, si trasformava in un letto.
In fondo a sinistra c'era l'angolo cucina con un lavandino e delle mensole in muratura sulle quali trovava posto un fornello elettrico. A destra vidi una libreria piegata dal peso di innumerevoli libri e infine, una porta dava su un piccolo bagno con doccia.
Una ventola muoveva l’aria dal soffitto e dalla finestra si vedevano tutti i tetti di Shella fino al mare. Rispetto alla fatiscenza dell'esterno, la prima cosa che saltava all’occhio (e volendo anche al naso), era la pulizia: pareti immacolate, neanche un granello di polvere, le stoviglie lavate disposte ordinatamente sullo scolapiatti, il pareo colorato che copriva il divano era stirato e si intravedevano tutti i vestiti disposti ordinatamente nell’armadio ricavato da una rientranza del muro. Alle pareti erano appesi dei quadri che avevo riconosciuto per suoi, da alcune bozze che aveva scarabocchiato sui tovaglioli del bar (anche pittore, pensai).
Tra gli angusti spazi lasciati liberi da divano e tavolo il Sappe, che si muoveva leggiadro come un ballerino, si diresse verso l’angolo cucina chiedendomi «Cosa bevi? Caffè? Tè? O birra?»
Senza aspettare risposta aprì un piccolo frigorifero che non avevo notato, di quelli da camera d’albergo, ed estrasse due bottiglie di Tusker, le stappò e me ne passò una.
«Era una domanda retorica, quindi – dissi prendendo la birra – ma… (feci una pausa teatrale) non sarebbe ora di finirla con le domande retoriche?»
«Ahaha buona questa!» esclamò ridendo Sappe.
«Piuttosto – dissi con un tono di voce più serio – vedo che, come tu vai insegnando, il tuo alloggio non ha più di una camera...».
«Ah, sei preoccupato per la tua sistemazione? - mi interruppe – vieni con me!»
Varcò l'uscio, si diresse verso il ballatoio con la bottiglia della birra in mano, aprì la prima porta sulla sinistra e si fece indietro con un'ironica riverenza per farmi passare.
Entrai e vidi una perfetta camera d’albergo, con un letto circondato da una zanzariera, un comodino, un tavolo, una sedia, un armadio e un lavandino nell’angolo. Le lenzuola e gli asciugamani profumavano di bucato e anche qui una ventola pendeva dal soffitto.
«In fondo al ballatoio ci sono due bagni con doccia, uno è a uso esclusivo per te, le chiavi sono sul comodino. Puoi fermarti quanto vuoi, per la prima settimana sei mio ospite, se poi vorrai fermarti di più, mi pagherai quello che chiedo ai miei clienti. Un’inezia per un Mzungu come te».
«Ma che cos’è un albergo? È tuo?»
Dalla sua espressione mi accorsi che stava per donarmi l’ennesima perla di saggezza, infatti, con aria solenne declamò: «Quando tu pensi di possedere qualcosa è invece quella cosa che possiede te!»
Proseguì poi con un tono normale: «Questa palazzina era una volta una Guest House e al piano di sopra, sulla terrazza, c’era un bellissimo bar ricoperto da un grande tetto in makuti, cioè di paglia. Il tetto bruciò, il proprietario attraversò una fase di crisi e chiuse tutto. A quel punto gli proposi di darmelo in gestione ed eccoci qua, le altre camere e l’appartamento di sotto sono occupati da brava gente che si alza tutte le mattine di buon'ora per andare a lavorare. Direi che gli unici personaggi ambigui, qui - si guardò intorno con aria e assunse un tono confidenziale  - siamo io e te».
Bisognava solo abituarsi al canto del muezzin, al tuktuk che scaldava il motore sotto la finestra alle sei del mattino, al vociare dei bambini, al belare delle capre e a quel maledetto gallo che iniziava a cantare molte ore prima dell’alba. Per il resto si stava bene nella Guest House del Sappe. Tutti i giorni veniva una timida ragazza a fare le pulizie ed era l’occasione per lasciarle libera la camera e andare a fare due passi.
Mi piaceva Shella ed io piacevo alla sua gente.
Evidentemente si era sparsa la voce che ero amico del Sappe e tutti mi salutavano chiamandomi per nome, chiedendomi come stavo, se avevo bisogno di qualcosa di non farmi problemi. Quando passavo, i bambini mi correvano incontro festanti e pian piano conobbi i vicini di casa come, ad esempio, George, che gestiva uno spartano ristorantino, troppo pieno di mosche per decidere di accettare il suo invito ad accomodarmi o Mohammed, un ragazzo che gestiva un negozio di articoli idraulici che mi lanciava sempre grandi sorrisi. Riconobbi Farid, l'anziano che avevo intravisto il primo giorno dalla cima della scala, che mi raccontò della recente scomparsa della moglie e che insisteva sempre perché andassi a bere un tè da lui e infine Raphael, un bimbetto vispo di sei anni che ogni volta che arrivavo si infilava nella mia auto, si metteva al volante e faceva "brum brum" con la bocca. Della sua mamma - mi raccontò il Sappe -  non c'erano notizie e viveva, insieme ai suoi fratelli, con la nonna che si faceva in quattro per mantenerli. Ogni tanto le allungava qualche scellino e si assicurava che il ragazzino andasse a scuola, era la sua unica speranza per emanciparsi dalla condizione di ragazzo di strada.
Ero così affascinato dalle nuove esperienze che per qualche giorno mi rilassai, dimenticando le tensioni delle settimane precedenti, finché una tarda mattina, mentre ero seduto al bar col Sappe, decisi di provare a chiamare Ettore. La classica voce registrata mi avvertì che il telefono poteva essere spento o non raggiungibile.
«Che strano, è sparito» dissi tra me e me.
«Di chi stai parlando?» mi chiese il Sappe.
«Di Ettore».
«Non è sparito - rispose guardando l’orologio - a quest’ora probabilmente sta volando sopra la Somalia verso Roma»
«Ma come, se n’è andato? Senza dirmi niente? E come mai non mi hai detto nulla?»
«Perché era diventato la tua ossessione, lo vedi come ti ha fatto bene cambiare aria...».
«Sì, te ne ringrazio, ma... fammi capire, se n'è andato senza salutare, vuol dire che è fuggito, cosa gli ha fatto Makotsi? Si è finto un fantasma e gli ha fatto il solletico ai piedi nel letto?»
«Niente di tutto ciò, semplicemente si è piazzato da te con moglie e figli»
«Continuo a non capire, non mi sembra così semplice - restai un attimo a pensare e poi chiesi - quanti figli?»
«Non ricordo bene, sicuramente otto, forse nove, so solo che il più grande, Adam, è un quattordicenne perché gli ho fatto da padrino poi ho perso il conto. Gli altri, ovviamente, avranno da zero a tredici anni» rispose il Sappe guardandomi negli occhi per studiare la mia reazione.
La mia risata scaturì immediatamente «Ahahah, otto o nove marmocchi in casa che piangono, corrono, urlano, giocano... ho capito perché Ettore se l'è data a gambe, sei un genio amico mio!»
Era l'occasione giusta per ordinare dello spumante.
Quando il cameriere portò la bottiglia, versai e alzai il calice: «Alla partenza dell'ospite indesiderato!»
«Cin cin!»
Degustammo il prezioso nettare, raro da queste parti e poi dissi: «Ora finalmente posso riprendere possesso della mia casa».
«Non penso proprio» intervenne il Sappe.
«Perché?» chiesi con aria preoccupata.
«Non credo che, a questo punto, sia facile mandare via Makotsi e famiglia dalla tua casa, mi ha detto che ci si trova benissimo».
Non riuscii a ribattere come avrei voluto «Ma... come... cosa?»
«E poi, insomma, avevamo deciso di occuparci per prima cosa di Ettore, e siamo riusciti a mandarlo via...prima il ragno. poi la vespa, ricordi?. Dai finisci il vino che torniamo a Shella!»

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