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IERI E OGGI IN KENYA

L'affondamento lento dei ferry di Mombasa

Pericoli (per la povera gente) dei nuovi megaprogetti

13-09-2024 di Freddie del Curatolo

In principio, fino ai primi anni del Novecento, erano canoe e barchette a collegare la città isola di Mombasa alla terraferma che portava verso la Tanzania.
Sui dhow più capienti salivano a bordo contemporaneamente lavoratori, donne con carichi più grossi di loro sulla testa, merci e trasportatori di ogni bene di prima necessità, famiglie numerose dirette ad un matrimonio o ad un funerale e qualsiasi genere di animale domestico da arca di Noè africana.
Con l’arrivo dei colonialisti britannici che fecero di Mombasa la capitale del “Protettorato del Kenya” ed iniziarono la costruzione della ferrovia che avrebbe collegato lo sbocco commerciale sul mare alla città di Kampala in Uganda, sbarcarono anche i primi mezzi a motore. Furono quindi approntate rudimentali ed instabili zattere in grado di trasportare due automobili o un camion per volta e spesso in preda alle correnti. Si narra che sul fondo del canale di Mtongwe ancora oggi giaccia la filiale di Atlantide di un noto concessionario di veicoli antichi. Sembra che già nel 1931 una delle tante navi arrivate probabilmente dal Sudafrica, non potendo più effettuare rotte lunghe, venisse utilizzata come traghetto.
Nel 1937 furono trasportati da Manchester i primi ferry per il servizio pubblico, mentre sei anni prima era stato costruito il ponte di legno che collegava Mombasa a Nyali e sostituiva quello fatto con zattere galleggianti unite tra loro.
Gli ultimi traghetti furono portati dagli inglesi prima dell’indipendenza del Paese, ed erano già belli stagionati. Una serie di inconvenienti ed un affondamento, consigliarono al presidente Jomo Kenyatta di acquistare il primo ferry proprio nel 1969, a cui se ne aggiunse un secondo nel 1974.
Per 16 anni il via vai di automezzi e persone è stato regolato da questi due cetacei di ferro, con un rimorchiatore sempre pronto ad intervenire. Fino a quando l’aumento del traffico, l’esplosione del turismo a Diani e l’espansione di Mombasa e del suo aeroporto, consigliarono allo Stato di fare un grosso acquisto: tre ferry di seconda mano, messi piuttosto maluccio.
Gli effetti disastrosi di questa scelta e della cattiva gestione dei trasporti, si videro Il 29 aprile 1994, quando uno dei ferry, diretto verso la terraferma da Likoni, si rovesciò a 40 metri dal porto, uccidendo 272 delle 400 persone a bordo, molti dei quali non sapevano nuotare ed altrettanti erano bambini.
Si seppe poi che la capienza massima dei ferry, per giunta appena omologati, è di 300 persone.
Finalmente, tra il 2010 ed oggi, sono arrivati anche traghetti nuovi, specialmente gli ultimi due dai cantieri turchi. Oggi sono sette, di cui almeno 3 funzionano quasi sempre.

Non solo inconvenienti e tragedie: la storia dei ferry di Likoni è una storia che accompagna l’evoluzione sociale e la crescita del Kenya e lo sviluppo economico e turistico del Paese.
Le immagini negli anni, che partono dai carri trainati dagli asini alle prime Land Rover, dagli indigeni seminudi ai primi professionisti locali in giacca e cravatta e arrivano ai grossi autobus e Tir panafricani, oggi sono sempre più sfocate, inghiottite non solo dal facile oblio dei tempi moderni, ma dai progetti infrastrutturali che servono come il pane all’Africa ma che, se gestiti da chi si approfitta di quest’esigenza, soffocano di debiti il Kenya.
Il ferry è destinato in pochi anni a scomparire, o quantomeno a restare la via di ingresso e uscita all’ex città-isola della povera gente, dei tuk tuk e dei boda boda, di quella varia, colorata e chiassosa umanità che già affolla i mercati e le baraccopoli, che vive con un dollaro al giorno e spesso, oltre a sbarcare da Likoni a Mombasa e viceversa, ogni giorno deve inventarsi come sbarcare il lunario.
Il primo raccordo stradale con ponte che collega l’aeroporto di Mombasa alla terraferma è già stato completato e si connette facilmente non solo con l’autostrada per Nairobi, ma anche con la tangenziale che porta verso Kilifi, collegando di fatto tutta la costa senza più bisogno di traghettamenti (molti ricorderanno che a Kilifi, fino al 1991, c’era un altro ferry, prima della costruzione del ponte da parte dei giapponesi).
Il ponte vero e proprio, progetto gigantesco e dispendioso già annunciato più volte, dovrebbe partire l’anno prossimo. Ma soprattutto, in questi tempi di fondi monetari e abissi di egoismo, è più facile ottenere prestiti per costruire un grattacielo, piuttosto che chiedere di riammodernare la casettina che avrebbe bisogno solo di qualche ritocco per apparire ancora dignitosa.
Così ad oggi i ferry stanno operando, dallo scorso maggio, senza i necessari requisiti di sicurezza, mettendo a rischio la vita della gente comune e di migliaia di persone che ancora non hanno interesse, comodità o possibilità di passare dalla nuova tangenziale o che non hanno tempo e fisico per affrontare il ponte pedonale (altro progetto costoso e piuttosto inutile, inaugurato qualche anno fa e silenziato pochi mesi dopo). Pochi giorni fa politici e attivisti locali hanno protestato per la situazione, ma pare che ultimamente le proteste siano diventate talmente di moda, che piano piano diventeranno un costume naturale, come instupidirsi di selfie in spiaggia o sotto il Kilimanjaro, e nessuno ci farà caso.
Sperando che non si debba assistere ad una nuova tragedia, molto più grave di quella quotidiana di vedere un Paese traghettarsi da una parte all’altra del mondo, senza aver insegnato alla sua gente a nuotare e dotando solo pochi eletti di salvagenti rubati chissaddove.

TAGS: ferryLikonitraghettostoriacanaleMombasa

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