Editoriali

EDITORIALE

In Kenya tra verità, bastoni e parole inutili

Luoghi comuni dove "Mr.Corona" è solo l'ultimo arrivato

31-03-2020 di Freddie del Curatolo

Le verità dell’Africa sono sempre scomode, sconosciute ai più e addirittura ai tanti occidentali che non la vivono a 360 gradi, ovvero nelle sue pieghe profonde, misere e dolorose e contemporaneamente frequentano e interagiscono con le classi più alte e agiate, dalla media borghesia, ai rappresentanti delle istituzioni fino alle stesse oligarchie che ne Governano i Paesi.
Le verità del Kenya sono difficili da assimiliare, specie in tempi come questi in cui già di per sé la verità è un fatto ormai soggettivo ed ognuno, ogni giorno, ne può acquisire a palate, gratis, nella rete.
Non mi stancherò mai di parafrasare Ryszard Kapuscinski: anche l’Africa, in realtà, non esiste, figuriamoci le sue verità.
Se ci fossero certezze, in questo luogo che si muove e corre “alla giornata”, come la famosa gazzella del proverbio, sicuramente sarebbero completamente diverse dalle prime che ci possono venire in mente.
Il grande scrittore keniano Binyavanga Wainaina proponeva barcate di luoghi comuni sull’Africa usando i quali non si può mai sbagliare, così come tutto è più credibile usando quel tono sommesso a metà tra rassegnazione, invettiva e indignazione.
“L’Africa è da compatire, adorare o dominare – scriveva - Ma qualsiasi punto di vista scegliate, assicuratevi di dare l’impressione che senza il vostro intervento l’Africa sarebbe spacciata”.
Le certezze propinate dai media e da presunti conoscitori del Continente in questi giorni non fanno eccezione: “il virus arriverà e sarà una strage”, “l’Africa non è preparata”, “la crisi economica aggiungerà fame e disperazione al contagio” e via dicendo.
Poi c’è la “caccia al bianco”, come forma di ritorsione e in ultimo la polizia ne ammazzerà più del Covid19.
Tutto questo può essere, certo; chi tante ne spara ha più probabilità di centrare il bersaglio.
Resta il fatto che molti di quelli che ora dispensano questi preventivi di saggezza, fino a ieri scrivevano che il virus non avrebbe resistito al caldo, che gli extracomunitari in Europa non lo prendono “e quindi state tranquilli” o addirittura che i farmaci per la malaria o le medicine naturali degli stregoni li avrebbero protetti naturalmente.
Per non dire di chi, quando in Italia i contagi si contavano sulle dita delle mani di un contadino del lodigiano, sorseggiando uno spritz puntava il dito sul Kenya perché “con tutti quei cinesi sarà contagiato in poco tempo”.
Invece la verità dei numeri, dei dati, quelli ineccepibili perché parlano di ricoveri, di posti letto occupati nelle pochissime (meno di mille) unità di terapia intensiva del Kenya, dicono che il virus qui lo hanno portato (dall’Europa e dall’America, certo) soprattutto i keniani e loro lo hanno diffuso rifiutandosi di stare in quarantena.
Poi ecco che si palesano i difensori del coprifuoco e delle bastonate della polizia per farlo rispettare. E qui la verità si fa scomoda, addirittura controproducente per chi vuole scrivere e descrivere la realtà di questo Paese. Difendi certe scelte e passi per fanatico delle dittature, comprendi metodi estremi e sei inevitabilmente razzista.
Quando sono arrivato in Kenya avevo poco più di vent’anni e tutte le idee più colorate e brillanti del mondo. Sogni, speranze, ideali.
Ma andavano quasi tutti in una sola direzione.
Vivendo in Kenya ho capito che se vai in una sola direzione, ti perdi.
E che se hai poche idee ma in compenso fisse, sei più inutile e fuori luogo di un bufalo di savana laureato in matematica pura, come avrebbe detto De André.
Così ho visto le scuole keniane, dove i maestri ti picchiano con le bacchette (stick) fin dalla prima classe, come facevano nelle nostre scuole fino a qualche decennio fa.
Ho visto preti e pastori incitare i fedeli alle punizioni contro ladri e menzogneri, invece di invitarli a porgere l’altra guancia.
Famiglie di villaggi alle porte di Malindi infilare un ladro di biciclette dentro una pila di copertoni di camion e dargli fuoco.
Un giorno il Capo della Polizia mi chiese di andare in tutta fretta in Stazione con la mia Land Rover, perché l’unico mezzo in dotazione agli agenti era rotto. Feci il driver per loro e andammo ad arrestare un uomo che aveva stuprato la moglie di un ex collega di lavoro.
Una volta che i poliziotti l’ebbero caricato sul cassone del fuoristrada, la gente del quartiere iniziò a lanciare pietre all’indirizzo del criminale, colpendo anche un agente e facendo un bel po’ di danni alla macchina.
Ho visto da sempre l’insubordinazione trattata così, da una parte e dall’altra.
In questo noi siamo cambiati (per poi vedere le nostre forze dell’ordine sfogarsi magari di nascosto, anche per frustrazione e spesso con esiti brutali), loro invece no.  
Gli stick sono in dotazione anche alla polizia e chi disobbidisce sa bene che verranno usati contro di lui. Oltre alle immagini (disdicevoli, per carità) che girano in questi giorni, di violenze sulle donne che si attardavano al ferry di Likoni a Mombasa o sugli homeless di Nairobi, ce ne sono tante di camionisti chiaramente colpevoli che, in silenzio come bambini disobbedienti o rei confessi, subiscono le scudisciate e non vedono l’ora che finiscano per potersi rimettere al volante e, piangendo, dire a sé stessi quanto sono stati coglioni o quanto è stato bastardo il loro datore di lavoro che gli ha detto “vai, vai...vedrai che non ti becca nessuno, eccoti gli straordinari”.
Anche negli uffici del Comune di Malindi e in ambienti meno istituzionali in tanti mi hanno detto che per chi è nato e vive qui le reazioni della polizia sono sempre le stesse, anzi...forse ai tempi del Presidentissimo Moi erano pure peggio. Questo non giustifica niente e nessuno, né vanifica i giusti sforzi della società civile, ma deve servire d’esempio a chi non conosce l’Africa e ai tanti lettori che hanno sostituito la loro memoria con una card da 32 giga per il telefonino.
Per quanto riguarda il Covid19, ci sono ancor meno verità ed il futuro si scrive ogni giorno come se quest’emergenza fosse nata per l’Africa.
Tuttavia la situazione pregressa del Continente parla chiaro, il Corona è solo l’ultimo arrivato e se si puntano i riflettori su di lui e sulla sua possibile incidenza qui è solo perché l’argomento è terribilmente di moda.
In Kenya i sieropositivi che solo da pochi anni hanno avuto accesso a cure abbastanza economiche sono quasi 1 milione. Quanti ne scrivono anche sporadicamente?
Più di 100 mila persone all’anno muoiono di malaria, le malattie respiratorie e la Tubercolosi sono la prima causa di decesso.
Solo all’ospedale della Contea di Kilifi (dato ripreso da testate nazionali come Standard e Kenyans) dall’inizio del mese sono morti una ventina di bambini per patologie collegate ad asma e problemi bronchiali.
E nelle loro capanne continuano a bruciare la paraffina, per illuminare, e il carbone per cucinare. A nord e dalle parti del Lago Vittoria il colera miete ancora vittime, sembra sempre debellato ma torna dopo ogni stagione delle piogge e via dicendo.
Mr. Corona, come lo chiamano qui, si è già messo in fila e se dovesse trovare la porta chiusa di Casa Africa, è solamente perché tutti gli altri portatori di morte quotidiana, silenziosa, inesorabile come certe verità che ci si vergogna a pronunciare, hanno già occupato tutte le stanze. Questo non significa che non si debba cercare di far fronte in ogni modo alla nuova emergenza, e non sembri un paradosso.
Ma rifugiarsi nei luoghi comuni del “sarà una strage perché non si può stare in 10 in una capanna di fango” non serve a nulla e fa tornare alle parole di Wainaina: se continuiamo a vedere l’Africa con i nostri occhi di “salvatori occidentali”, per quanto in buonafede e sicuramente benefattori, non capiremo mai nulla.
Chi è nato in una capanna è indubbiamente abituato a viverci e si sente anche fortunato, rispetto a chi non ce l’ha o ha una baracca di lamiera. Le capanne delle famiglie, nei villaggi, sono più grandi di quei monolocali che a Milano gente dello Sri Lanka, del Senegal e del Perù dividono in sei o sette, il problema della povertà non inizia a porsi con il “social distancing”, così come sono desolatamente provinciali gli appelli di chi fa di tutta una Malindi o una Watamu l’Africa. Porta un piatto di polenta e fagioli in quella capanna, e vedrai come stanno volentieri a casa, anche a un metro l’uno dall’altro.
A che serve battere le dita alla rinfusa sulle tastiere, se non a regalare la solita immagine stereotipata dell’Africa, così bella ma così sfruttata depressa calpestata odiata come il fratello figlio unico di Rino Gaetano?
Non è meglio stare in silenzio e iniziare a muoversi, come sta facendo il nostro connazionale  che ha trasformato un bed & breakfast in sartoria per cucire le mascherine o come chi si sta preparando ad allestire hotel, stadi, scuole e fabbriche per ospitare cittadini che potranno giacere alla giusta distanza l’uno dall’altro?
Agire, o almeno capire, suggerire e organizzarsi di conseguenza.
Altrimenti, per favore, attenersi alla fredda cronaca (perché il Kenya, particolarmente, chissà come mai fa sempre notizia) come riescono a fare i giornalisti seri, o usare il proprio fiato per sensibilizzare attraverso tutti i canali di tendenza per indignarsi, polemizzare e prendersela con Governi, usanze e soprusi ancestrali.
Non è proprio il momento.
L’Africa è questa e con tutti gli animali selvatici e i felini che la popolano, starnazzare non ha mai portato troppa fortuna.

TAGS: verità africaparole africacoronavirus kenya

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