EDITORIALE
15-05-2020 di Freddie del Curatolo
Chi conosce e frequenta quotidianamente o anche sporadicamente il nostro portale, che da dodici anni informa e promuove il Kenya per gli italiani in varie forme, tutte positive e costruttive, sa che raramente chi vi scrive cade nella puerile melma della polemica sterile e di chi per motivi diversi tra loro fomenta odio, spaccia ideologie anacronistiche o cavalca interessi di sorta.
Quel che personalmente non sopporto e mai riuscirò ad ignorare sono le fake news, le inesattezze e le castronerie perpetrate da colleghi giornalisti e sedicenti esperti di quel che scrivono (i tuttologi sono depennati dalla lista, anche se purtroppo fanno numero...).
Fatta la dovuta premessa, preferisco parlare della realtà, piuttosto che smentire decine di notizie inesatte, travisate se non proprio inventate rispetto alla situazione attuale del Kenya.
Il rapimento dell’italiana Silvia Romano (non una cooperante, come continuano a scrivere in troppi e purtroppo anche giornalisti autorevoli e che stimo, ma una giovane volontaria alle prime armi reclutata da una Onlus alquanto disorganizzata) è L’UNICO rapimento avvenuto in Kenya ai danni di stranieri in zone non al confine con la Somalia. E per confine si intenda una fascia di non più di 40 chilometri o miglia marine.
Caso gravissimo che costituisce senza dubbio un precedente, ma non dà automaticamente il diritto a nessuno di vendere come verità che il Kenya sia una “terra di rapimenti” come hanno fatto molte testate e media italiani.
Snocciolando poi dati abbastanza ridicoli all’interno degli articoli.
Questo altrettanto ovviamente non significa che il Kenya sia un posto più tranquillo e sicuro di altri in Africa e nel mondo, ma neanche la nuova Patria di Belzebù. Lo dico a beneficio dei nuovi maitre a pensér dei social, per i quali se non è nero è bianchissimo, se difendi qualcuno perché ha detto una cosa giusta sei automaticamente suo "fan" e significa che disprezzi i suoi avversari e chi non la pensa come lui e via dicendo.
Ma torniamo ai colleghi, che ci danno più giramenti...perché hanno i mezzi per screditare questo Paese e le sue realtà con una superficialità e un menefreghismo imbarazzanti.
Si sappia che il precedente rapimento ai danni di un turista (ovvero uno straniero con visto di soggiorno di tre mesi rinnovabili per altri tre e non un permesso da cooperante, religioso o membro di associazioni internazionali riconosciute in Kenya) risale al settembre del 2011, nell’isola di Kiwayu, un paradiso isolato e fino ad allora tranquillo, a nord dell’arcipelago di Lamu e quindi molto più vicino alla Somalia.
In un resort da miliardari dove negli anni avevano alloggiato personalità di ogni tipo, da Mick Jagger a Carolina di Monaco, i coniugi Tebbutt, David e la moglie Judith, furono attaccati nel loro cottage da una banda di pirati somali approdati sulla spiaggia con una barchetta a motore.
David cercò di difendere sé stesso e la moglie e fu ucciso, la donna catturata ed ignara della fine del marito. Fu venduta dai pirati ad Al Shabaab e liberata poco più di sei mesi più tardi con un riscatto di quasi 1 milione di euro di allora, pagato tramite una colletta privata organizzata in Gran Bretagna ma gestita e portata a termine dall’Intelligence di Sua Maestà.
Judith raccontò alla stampa di non essere stata trattata male, accudita sempre da donne, ma di aver passato un periodo psicologicamente duro, in seguito anche allo sconforto per la morte del marito, che le venne comunicata dal figlio al telefono, due settimane dopo il rapimento, ma di avere sempre pregato e creduto nella sua liberazione. Durante i giorni di prigionia la donna fu trasportata in diversi rifugi, nella foresta dell'entroterra somalo e raccontò di aver pensato più volte alla conversione all’Islam. Una volta liberata, si presentò al mondo con una veste tipica somala che le copriva testa e corpo. Judith Tebbutt ha raccontato la sua storia in un libro che ha venduto migliaia di copie: A long walk home.
Non vi sono altri casi di rapimenti di turisti collegabili al terrorismo somalo, ma nemmeno rapimenti ai danni di stranieri da parte di criminalità organizzata o disorganizzata keniana.
Tutti gli altri sono avvenuti o nel campo profughi di Dadaab (da considerarsi praticamente un enclave somala in Kenya), come le due cooperanti spagnole di Medicins Sans Frontieres che furono tenute in prigionia 21 mesi, o in zone limitrofe. Anche in quel caso le donne dissero di non aver subito alcun genere di violenza.
Infine vorrei ricordare al presunto “Giornalista, esperto in Geopolitica” del Fatto Quotidiano Roberto Colella che, a differenza di quanto scrive in uno degli articoli più allucinanti e cialtroni di questo periodo, che l’Ogaden National Liberation Front non è un movimento locale keniano, ma chiaramente un’organizzazione etiope che fa riferimento, guarda un po’, ad una regione dell’Etiopia che si chiama Ogaden. Che i “mungiki” non sono una gang dedita a rapimenti, ma una setta segreta del Monte Kenya che un tempo sequestrava giovani adolescenti per riti tribali, e che durante il caos elettorale del 2008 si disse fosse stata assoldata anche per regolare faide politiche locali. Ci piacerebbe sapere cos’è accaduto a Colella poco prima di scrivere quello sciagurato articolo, il cui titolo sparge ingiustificato terrore. E anche con quale diritto si autoproclama esperto di Geopolitica. Vorrei fare uso dello stesso metodo per definirmi idraulico, che si guadagna bene.
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