REPORTAGE
19-06-2012 di Freddie del Curatolo
Sono sempre meno, ma sempre più decisi.
Hanno perso per strada fratelli, compagni di viaggio, vicini di capanna.
Tutto quel che hanno è una casa e un campo coltivabile, i loro costumi tradizionali e un paio di abiti che noi chiamiamo “civili” ma che a ben guardare sono meno civili dell’hando (la gonnellina con il top delle donne) e del khanga (il pareo avvolto in vita degli uomini).
Hanno poco o nulla e oltretutto vedono ogni giorno di più il loro passato cancellato da falsi miti, ignoranza e dall’assenza totale delle istituzioni.
Il manipolo di Mijikenda che per il secondo anno di seguito si è messo in marcia per difendere la propria cultura e le tradizioni di un’intera etnia, merita ancora più rispetto e visibilità.
E’ una battaglia pacifica, che viene combattuta con due sole armi: piedi e testa. E con munizioni di gioia, positività sparate sulla gente che incontrano sulla strada. Duecentocinquanta chilometri in sette giorni di camminata, toccando otto luoghi sacri della cultura mijikenda.
Una cinquantina di piccoli, umili, pacifici eroi cercano di risvegliare il sentimento d’appartenenza di due milioni di persone, gran parte delle quali vivono ancora nella regione costiera del Kenya. Sono perlopiù anziani. Ci sono molte donne, “mama” che hanno alle spalle numerosi figli, decenni di governo del villaggio, del campo coltivato (la “shamba”), delle capanne di fango. Dopo i chilometri quotidiani di una vita, per andare a prendere l’acqua, per procurarsi la legna, per recuperare erbe medicinali, per scambiare i prodotti della terra con altra materia commestibile, ora camminano fino allo stremo per non perdere quanto di più caro è rimasto loro nel cuore. Il tesoro di una vita, l’unico gioiello ereditato dai padri e dai padri dei padri. Quello che le grandi piogge non potranno mai trascinare a valle con l’argilla melmosa, che gli incendi di febbraio non potranno mai ridurre in cenere, ma che solo l’inciviltà dell’uomo potrebbe far scomparire.
Le mama, gli anziani, i capotribù, il poeta e i musicanti, le danzatrici con alcuni “professionisti” (l’avvocato Joseph Mwarandu, fondatore dell’associazione culturale MADCA, il curatore di musei John Mitsanze, il tour-leader Samson, l’universitaria Furaha, il maestro Simba, figlio dell’ultimo grande capo Mijikenda, Simba Wanje) si sono ritrovati il 15 giugno a Mombasa. Accolti dal Governatore della costa, che li ha esortati a proteggere le loro tradizioni, sono partiti alla volta della prima “kaya”, il villaggio sacro di una delle nove tribù che compongono l’etnia mijikenda.
Chi segue malindikenya.net conosce già la storia di questo popolo: nel dialetto giriama, divenuto l’idioma ufficiale dell’etnia, “midzi” significa popolo e “chenda” è il numero nove. Le nove tribù intorno all’anno mille lasciarono le colline di Shangwaya, non lontano dal confine con la Somalia dove oggi è in gran parte deserto e dove si battaglia con la fame e si conduce un’assurda guerra tra squallidi interessi economici e cieche rivendicazioni integraliste, per cercare un luogo più tranquillo e riparato dagli attacchi di popolazioni guerriere. Attraversando l’entroterra costiero giunsero tra i saliscendi di Kaloleni. Qui ognuna delle tribù si organizzò in un villaggio. Chi nelle piane tra boschi e palmeti, improvvise formazioni di rocce laviche millenarie e fiumiciattoli che confluiscono nel creek di Kilifi. I Digo si spostarono verso Mombasa e da qui proseguirono per Ukunda, i Duruma scelsero la zona di Mazeras, dove le vallate si aprono e oggi passa l’autostrada Mombasa-Nairobi. Le altre tribù elessero a foreste sacra (le kaya, appunto) villaggi molto vicini tra loro. In una manciata di chilometri si sale sul crinale di Ribe, nella piana di kaya Chonyi, nella foresta di Jibana, sulle colline di Rabai, nel bosco di Kambe alle pendici della cittadina di Kaloleni. Poi, scendendo verso il creek, s’incontra la kaya dei Kauma, poco distante dal villaggio di Jaribuni.
Il traffico di Mombasa incontra a suon di clacson e fumo nero di marmitte instabili il passaggio della sfilata in costume dei Mijikenda. In testa al gruppo c’è una mama che regge la bandiera keniota, mentre un ragazzo vestito in abiti normali ne fa sventolare una identica nelle retrovie. Qualcuno al passaggio del plotone urla “mchawi!”, stregoni cattivi. E’ il primo segnale della poca coscienza dei loro stessi consanguinei. “I Digo sono stati i primi a prendere le distanze dalle tradizioni Mijikenda – mi spiega Mwarandu – così come fecero mille anni fa quando se ne andarono oltre Mombasa. E’ insito nella loro natura. Così oggi si mescolano alle razze della grande città, e questo è anche giusto, ma invece di mostrare le peculiarità della loro provenienza, hanno assorbito la civiltà e il progresso nel nome del business, del denaro, della globalizzazione”. E’ comodo pensare che chi difende una cultura indigena millenaria, voglia anche difendere i rituali animisti che ancora sopravvivono qui, dove l’evoluzione è arrivata (con inganno, coercizione, schiavitù e violenza) solo due secoli fa. I Mijikenda ancora oggi sono in grado di curarsi con le erbe, praticando una medicina che è in auge nei salotti bene delle metropoli occidentali ma che non piace per niente alle multinazionali che scaricano tonnellate di medicinali fuorilegge in Africa, hanno amministrazioni parallele e parlamenti nei loro villaggi che non hanno mafia e corruzione come fondamenta del loro ordinamento, ma buon senso e rispetto delle opinioni di tutti.
Non a caso il Consiglio degli Anziani di una circoscrizione, viene consultato anche dalle autorità distrettuali, dalle associazioni benefiche, da chiunque voglia avere a che fare con le zone ad alta concentrazione di Mijikenda. Esiste anche la stregoneria, e tutti ci credono. Tanto che gli stregoni sono personaggi molto potenti. Un anatema contro malviventi o chi palesemente non rispetta le regole della comunità, fa paura anche agli stessi giovani che si vogliono staccare dagli usi e costumi dei padri, in nome degli dei che noi conosciamo da tempo. “Si muore più facilmente in coda in un ospedale di Mombasa aspettando la cura giusta, piuttosto che a Kaloleni, dopo un consulto con lo stregone guaritore” dice Simba.
Vaglielo a spiegare ai tassisti in motocicletta assiepati agli angoli delle strade, che delle usanze degli avi si tengono solo il vino di palma, consumato però non fresco nel relax di un tramonto nella kaya, ma superalcolico e fermentato nella fagocitante miseria suburbana. Vallo a raccontare a chi vive di espedienti intorno al mercato nuovo, sniffando colla e maledicendo il governo, convinci tu le bande di slum che abbrustoliscono sogni e speranze sotto la lamiera di baracche che presto verranno spazzate via dall’edilizia, da quello stesso progresso che si mangia la cultura dei padri.
Le nuove generazioni si nutrono della stessa droga e non solo si dimenticano la cura, ma arrivano anche a denigrarla e a combatterla. “I nostri anziani vivono ogni giorno con la paura di essere picchiati se non ammazzati – racconta Emmanuel Munyaya, giovane (e non è un caso, è stato eletto apposta) presidente dei Madca – io stesso che ne ho difesi alcuni, e ho cercato di denunciare le baby gang che vogliono eliminare i presunti stregoni, sono minacciato e ho messo la mia vita e quella della mia famiglia a repentaglio”. Sotto i loro piedi nudi, nella camminata del primo giorno che li vede attraversare i sobborghi sporchi e degradati della città portuale, alla sporcizia immorale si aggiunge un senso di instabilità che abrade più delle buche dell’asfalto. Insieme alla cultura e alla tradizione, ci sono da salvare vite umane, esistenze di uomini semplici e antichi, di decani impassibili come baobab e saggi come l’acqua dei ruscelli incorrotti delle colline che da sempre trasporta e purifica le stesse cose.
Un giorno di cammino per purificarsi dall’inciviltà della civiltà. Kaya Duruma è una via di mezzo tra i Digo ormai persi (“i loro capi si sono addirittura rifiutati di partecipare agli ultimi meeting intertribali” ammette il segretario dei Madca John Mitsanze, che a Mombasa ci vive e lavora) e le “sette sorelle” delle colline, Ribe, Rabai, Kambe, Kauma, Chonyi, Jibana e ovviamente i Giriama, la tribù più numerosa, quella che a Malindi frequentiamo e ben conosciamo.
A Mazeras c’è un altro gruppo di persone, importanti e coinvolte nella camminata di pace e sopravvivenza almeno quanto chi ci mette i piedi. Si tratta delle mama che predispongono la cena e preparano il luogo in cui il manipolo si fermerà per dormire. Coordinano il tutto Mama Dahabu, un’energica signora di Matsangoni che è capace di trattare con i negozianti il prezzo di ogni singolo mazzo di spinaci locali (“sukuma wiki”) e di insaporire un piatto di polenta e fagioli con latte di cocco e melanzane gialle di Kombeni. Con lei c’è Mama Kapucheche, che un tempo ballava e cantava come poche giriama ma che pinguedine e salute consigliano di tenere le ginocchia a riposo. Dall’Aretha Franklin Mijikenda che era, si è alacremente trasformata in aiuto cuoca, ma non disdegna qualche improvvisa canzone tradizionale e ha sempre un sorriso per tutti. Accanto a loro, qualche neo mamma con i pargoletti al seguito e gli anziani che non possono camminare ma non rinuncerebbero per niente al mondo ad essere sul campo. Hanno messo da parte i loro risparmi e si pagano la tratta del matatu per attendere i camminatori alla sera e farsi raccontare la tappa.
Lungo la strada che porta a Mazeras ogni villaggio, ogni assembramento di gente e negozi, ogni crocevia, ha visto il popolo in cammino fermarsi, mettersi in circolo e cantare. Fino a quando si forma un altro circolo alle loro spalle e un crocicchio sempre più imponente diventa pubblico. Ecco allora che scatta quella che Mwarandu chiama “Elimu”, l’erudizione. Nel nome della pace, della mescolanza di razze e culture e in difesa della propria, vengono raccontati i problemi e le verità dei Mijikenda. Dietro ai fantasmi della stregoneria, c’è il pensiero così salvifico e attuale di un’etnia che per centinaia d’anni è stata pacifica, in cui erano le donne a comandare, che non costruiva armi da guerra e aveva monili da caccia che spesso facevano sorridere persino le loro prede. Meglio ingegnarsi per creare trappole, che passare la vita a costruire pericolose lance. Meglio diventare vegetariani, che rischiare la vita per uccidere uno gnu. L’uomo d’altronde non è mica nato carnivoro. Il poeta Kazungu Wa Hawerisa intrattiene il pubblico con le sue liriche in giriama. Sonetti che pescano nell’attualità (le bombe nelle chiese a Garissa, le elezioni, il Governo lontano dalle esigenze dei cittadini) e nella storia (le profezie veritiere, le preghiere dei padri). Per finire l’improvvisata festa di paese con un’invocazione a un dio che può essere quello cristiano ma anche quello mussulmano, ma in realtà per ognuno di loro è lo spirito dei padri e delle madri, la forza del ricordo e del percorso millenario, sempre a piedi, fatto da un intero popolo. Forse è proprio Dio, quel che i camminatori Mijikenda stanno cercando di difendere.
Taireni, za mulungu. Alombwayeni mulungu.
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