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In Kenya scoppia la guerra delle patatine fritte

Il gigante KFC resta senza chips e i keniani scoprono che...

08-01-2022 di Freddie del Curatolo

La grande distribuzione in Kenya ha sempre faticato, specialmente quella legata ai fast food. Non a caso, pur essendo uno dei 20 paesi più promettenti dell’ultima decade dal punto di vista del prodotto interno lordo, è uno dei pochissimi dove non ha ancora attecchito Mc Donald’s.
Se considerate che l’hamburger e le patatine fritte sono una delle grandi passioni dei keniani, insieme alle bibite analcoliche gassate, si può intuire che Nairobi, come un tempo accadeva a Houston, abbia un problema.
L’ultimo bubbone, che spiega meglio di qualsiasi dietrologia la situazione nell’era global, è scoppiato qualche giorno fa quando una delle poche catene di fast food che hanno aperto filiali in Kenya, la KFC (Kentucky Fried Chicken) ha annunciato ai suoi clienti che per qualche giorno non avrebbe potuto offrire le sue rinomate (!) patatine fritte perché aveva terminato le scorte.
Difficile da capire, per chi in questo periodo vede i mercati traboccare di tuberi di ogni genere, da quelle a pasta bianca alle rosse e quelle a pasta gialla.
L’arcano è stato presto svelato dall’azienda e ha fatto infuriare non tanto i frequentatori dei tanti locali KFC in franchaising, ma soprattutto i media e le associazioni di categoria di industriali e commercianti all’ingrosso del comparto agro-alimentare.
La motivazione infatti è riconducibile al ritardo nelle consegne internazionali delle patate che KFC acquista rigorosamente dall’estero e trasporta in Kenya.
“Il Kenya è pieno di patate – hanno tuonato le associazioni – non è giusto che i nostri contadini non guadagnino nulla da società che si sono insediate in Kenya e fanno affari qui”.
Così KFC è dovuta uscire allo scoperto e spiegare la filosofia delle “big chains”, le multinazionali del gusto, che devono rispondere a rigorosissimi standard per i quali la patatina assaggiata ad Hong Kong deve avere lo stesso gusto di quella mangiata a Rio de Janeiro e l’hamburger di Pechino non può differire da quello di Cincinnati.
Dopo la prima bufera, che ha spinto anche parlamentari e attivisti per i diritti civili ad esprimersi contro la multinazionale, i vertici di KFC si sono detti pronti a concordare un piano con i coltivatori di patate keniani per acquistare in futuro i loro tuberi, ma solo a patto che siano in grado di seguire e rispettare tutti gli standard di produzione richiesti.
Quando poi è stato chiesto al CEO per l’Africa dell’azienda, Jacques Theunissen, quali fossero questi standard e di condividerli con le associazioni di coltivatori di patate del Kenya, lui stesso ha dichiarato al quotidiano economico Business Daily che a causa di severe regole sulla divulgazione dei processi che portano alla definizione degli standard e di conseguenza dei prezzi, queste non possono essere condivise.
“"Non possiamo divulgare alcuna informazione da parte della proprietà riguardo all'approvvigionamento e ai prezzi" ha dichiarato il CEO, facendo intuire che ci potranno essere accordi privati con alcuni grossi produttori locali, a patto che seguano precise indicazioni, rese loro dopo averne verificato la qualità, la produttività e la disponibilità, specialmente riguardanti la catena del freddo, la sua gestione e il monitoraggio. Le patatine infatti arrivano a KFC direttamente surgelate dall’estero.
Al di là delle polemiche social e delle solite levate di scudi che ricordano certi ululati all’italiana della serie “non entrerò mai più in un Kentucky Fried Chicken” o “patatine yankee razziste” sull’onda del movimento “I can’t breathe”, la questione è molto più seria e moderna: potrà (e vorrà) mai un paese con le risorse del Kenya ma anche una vocazione anarchica che porta ad equivoci, adeguarsi alle esigenze del mercato globale? E quanto gli converrà farlo?
In particolare la propensione del comparto alimentare a fare un po’ quel che si vuole, aggirando le norme, a volte può essere scambiata per “bio” o “naturale” ma può anche essere anche nociva a tutti i livelli. La confusione sui pesticidi ad esempio continua a tenere banco tra i “farmers” più tradizionalisti e quelli moderni del “tanto subito”. Per non parlare delle aziende produttrici di farina, bloccate una ad una per i valori altissimi di aflatossine. Ma anche olio da cucina, riso e zucchero sono stati messi al bando più volte dal Kenya Bureau of Standards (KEBS) durante i controlli improvvisati. Per non parlare del fiorente mercato di superalcolici contraffatti. Da questo punto la questione della patatina pare la più leggera e risolvibile, tanto più che chi mangia regolarmente il cosiddetto “Junkie food” (cibo spazzatura, per gli americani) già di per sé non rende un buon servizio al suo sangue e al fegato.
Non sembra proprio questo il caso di lanciare slogan xenofobi del tipo “I can’t fry”.

TAGS: patatine kenyaimportazioni kenyaeconomia kenyadistribuzione kenya

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