EDITORIALE
14-03-2024 di Freddie del Curatolo
E’ il 19 settembre del 2018, il ventisettenne Joseph Irungu, aitante giovanotto molto noto negli ambienti festaioli di Nairobi, ex agente di sicurezza che ha lavorato a Dubai ed è stato guardaspalle anche di importanti politici, è un playboy impenitente.
Si fa chiamare “Jowie” e così è conosciuto negli ambienti che contano. E’ fidanzato con una popolare presentatrice televisiva, Jacque Maribe, ma ha da tempo una storia parallela con un’imprenditrice di una famiglia bene della capitale, Monica Kimani.
Quella sera, Jowie prende l’automobile della fidanzata e si dirige all’appartamento di Monica, l’amante.
Ma non è una sera come tutte le altre. Non c’è da consumare una notte clandestina, da infiammare un letto al ritmo di musica R&B e Johnnie Walker. Monica ha deciso di troncare quella relazione “malata”.
Jowie non ci vede più, forse pretende un trattamento migliore, probabilmente una buonuscita. La picchia, poi infierisce su di lei con una serie di coltellate, sfigurandola e lasciandola in una pozza di sangue.
Si ripulisce, si lava e sparisce nel nulla del sempre trafficato quartiere residenziale di Kilimani.
Viene incriminato quasi subito, ma ci vorranno 16 mesi agli investigatori keniani per incriminarlo, insieme all’ormai ex fidanzata, che nel frattempo è costretta a rinunciare alla sua carriera in televisione.
Il processo a Jowie e Jacque ha avuto, forse, il suo epilogo ieri, con una condanna esemplare per il più eclatante caso di femminicidio di sempre nel paese: Joseph Irungu è stato condannato a morte. L'ex fidanzata Jacque è stata assolta e non le mancano proposte di lavoro, anche importanti.
Secondo il giudice dell’Alta Corte di Nairobi, una donna di nome Grace Nzioka, il brutale assassinio di Monica Kimani è stato intenzionale, studiato e premeditato, oltre che brutale.
“Non è stato un atto di difesa né di provocazione, ma un omicidio a sangue freddo pianificato, voluto ed eseguito" ha sentenziato il giudice, giustificando la condanna.
In realtà Jowie non verrà mai giustiziato. Pur essendo infatti tra i 22 paesi del mondo che non hanno ancora abolito la pena di morte, di fatto in Kenya non avvengono più esecuzioni da oltre trent’anni e anche le ultime si riferiscono a condanne della Corte Marziale.
Secondo la Commissione dei Diritti Umani keniota, attualmente nelle carceri del paese, rinchiusi in un braccio della morte, ci sono ancora 600 condannati a morte che attendono la pena capitale ma sanno che di fatto stanno scontando un ergastolo in condizioni di detenzione più dura.
La stessa cosa probabilmente avverrà per Jowie. La sua condanna, più che una sentenza che va contro la morale odierna e i valori che tanti anni di battaglie per i diritti dell’uomo sono stati raggiunti e inculcati e che tanti oggi rimettono in dubbio, appare come un monito in un paese che sembra imitare sempre più le cattive abitudini dell’uomo occidentale e dove i femminicidi sono in inquietante aumento, così come fortunatamente cresce la consapevolezza del genere femminile e di conseguenza le denunce e la voglia delle donne di far sentire la propria voce.
Sicuramente l’eco di questo efferato omicidio e il suo risalto mediatico ha smosso qualche coscienza, anche se sono decine, nell’ultimo anno, le donne i cui assassini sono ancora sconosciuti.
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