L'ANGOLO DI FREDDIE
27-02-2024 di Freddie del Curatolo
A prima vista gli alberi di Takaungu sembrano proiettare al viandante uno scenario “fantasy”.
Si inerpicano sull'antica scala di pietra che sale dall'approdo delle barche di pescatori e di altri legni che trasportano anime salve da una parte all’altra dell’insenatura.
Donne con vesti colorate e cangianti che risaltano sul blu dell'oceano, venditori di frutta e verdura che si recano al mercato, sperando in qualche moneta o in un baratto per sopravvivere, studenti che non hanno altro modo per sognare un futuro diverso da quello dei padri, delle poche monete e del baratto, che salire ogni giorno su una zattera. A bordo troveranno preti, contadini, donne partorienti, anziani malati e trafficoni.
Andata e ritorno, ogni giorno, sulla stessa barca e poi sù, per la stessa scalinata.
In realtà la scala di pietra venne costruita più di settecento anni fa per un altro motivo, e molte delle piante che le abitano, lo sanno: a Takaungu, pochi chilometri a sud di Kilifi, nel bel mezzo della costa del Kenya, c’era una delle più attive e cruente tratte degli schiavi.
Salendo i gradini corrosi dal sale, dal sudore e dal sangue, si arriva alle rovine del mercato degli schiavi e, nonostante come quasi tutta la storia da queste parti non sia valorizzata e venga vissuta come una vergogna straniera e non come una memoria di cui fare lezione, cercando bene tra rovi e sterpi si trovano i pozzi in cui si calavano i giovani, muscolosi Mijikenda in forze, da issare al momento delle aste dei ricchi commercianti omaniti di Zanzibar, che venivano apposta ad acquistarli.
Chi non resisteva nel pozzo, non era un pezzo pregiato per la vendita, e veniva lasciato morire lì dentro, se già non ci avevano pensato serpenti o malattie.
Ecco perché gli alberi, che hanno visto tutto, non vorrebbero essere coinvolti nelle trame di pietra ed empietà della storia di Takaungu e si fanno da parte, lasciando la via libera ad ignari e fortunati di vivere altri tempi, in cui la schiavitù non getta quasi mai nei pozzi e non vende direttamente il tuo corpo, ma si accontenta della tua anima a rate.
Ecco perché, scolpito sul tronco di un baobab millenario, pare di vedere il volto atterrito, implorante di una di quelle anime in cattività, imprigionate in un tempo che l’uomo ha saputo cancellare ma che la natura, molto più saggia e consapevole di noi, ricorderà in eterno.
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