L'angolo di Freddie

EDITORIALE

Quella Malindi italiana che fu un film del Maestro

In molti definirono "felliniana" l'atmosfera di fine secolo scorso

28-02-2020 di Freddie del Curatolo

Perché per anni è stata davvero La Dolce Vita e tanti ex residenti italiani che hanno vissuto a Malindi nei cosiddetti anni d’oro sanno benissimo cos’è l’Amarcord. Ci si crogiolano e ancora si emozionano come quando i vecchi attori ricordano le Luci del Varietà.
Spesso lo chiamano Mal d’Africa anche se è un’altra cosa, 8 e mezzo al massimo sono le ore di volo per arrivare da Milano a Mombasa.
Si scende è il Grande Schermo del cielo africano non ha bisogno di registi: protagonisti della propria avventura...ma occhio ai copioni già scritti della Malindi italiana.
Con il tempo tra le spiagge e i resort è cresciuta una generazione di Vitelloni rasta che hanno sostituito i Casanova col fucile da caccia e il gilet da safari e poco a poco una certa Malindi si è allontanata dall’Africa nera e si è avvicinata a Rimini, anche se La Strada è rimasta soprattutto quella per lo Tsavo, che ora è anche asfaltata e rende la savana più vicina.
Mi era già capitato di definire “felliniano” questo angolo di costa keniota dove gli italiani da oltre quarant’anni hanno allestito la loro location ideale.
Chi ha conosciuto gli albori della gloriosa, grottesca, memorabile e strampalata “produzione” italiana sotto l’Equatore, ricorderà come un film le sontuose feste nelle immense ville con piscine olimpioniche di qualche Sceicco Bianco dove inevitabilmente ci si tuffava a fine serata, brilli e seminudi sotto gli occhi increduli e divertiti del personale di casa.
Notti di Kabiria popolate di Anitone Ekberg e Marcelli Mastroianni, con la fontana di Castel Giulione (oggi Mwembe Resort) trasformata in quella tricolore di Trevi, I Clown di tutti i tipi e situazioni alla Boccaccio ’70.
Non ci si potrà dimenticare la povertà disperata ma dignitosa della popolazione locale che nei villaggi scappava a nascondersi prima di pensare ad avvicinarsi e chiedere, per poi prostrarsi ai piedi dell’uomo bianco che aveva deciso di portare cibarie e vestiti, imbarazzandolo.
Scene da lungometraggi diversissimi tra loro, zapping non frenetici, anzi alla moviola del “pole pole” tra Satyricon e Zampanò, dove la metafora era sempre in agguato, la nostalgia su un’amaca tra due palme, le voglie spalmate tra giornate oziose sotto il sole d’Africa e nottate tempestose nella Città delle Donne tra incontri con pantere aizzate da costumisti degni della Gradisca, filosofi (con) spiccioli davanti a una Tusker e nessuno che salisse su un baobab come Ciccio Ingrassia per gridare “Voglio una donnaaaa”.
Sì, se il Maestro fosse passato da Malindi in quegli anni, si sarebbe convinto ancor più di quanto lo sia sempre stato, che osservando e descrivendo una qualsivoglia realtà italiana, ovunque nel mondo, in maniera acritica, apolitica, appassionata e un po’ adolescenziale, come nei sogni, si raccontano gli esseri umani, e si comprende quanto tragicomica ma anche poetica sia la vita, se si riesce ad accettarne i mille paradossi e le verità agghiaccianti, per coglierne infine ogni aspetto con leggerezza.
Così era Fellini, così è stata la Malindi italiana, la cui leggenda ancora oggi, se si tendono le orecchie al mare, gli occhi al cielo e l’immaginazione alla Natura, si sente sussurrare dalla Voce della Luna sull’Oceano Indiano.

TAGS: film malindifellini kenyamalindi italianastoria malindi

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