OPINIONI
20-06-2023 di Freddie del Curatolo
Da sempre, tra la popolazione locale, ci sono svariati modi e locuzioni verbali per definire meglio il generico “mzungu”, ovvero l’uomo bianco che non sia propriamente un “mtalii” (turista) o un “mgeni” (ospite). Specialmente quelli che, con il passare degli anni e delle generazioni, sono entrati a far parte della collettività e si comportano bene o male come i keniani.
D’altronde, fin dai tempi degli indiani che arrivarono alla fine dell’Ottocento e iniziarono ad integrarsi nel paese, con abitudini, modi di vivere e lavorare che entrarono poi nella quotidianità della società dell’Africa orientale (tanto che qualche anno fa l’allora presidente Uhuru Kenyatta ha celebrato l’ingresso degli indiani nel novero delle 47 tribù della nazione), il Kenya ha sempre accolto e si è in qualche modo confrontato con popolazioni straniere di cui un certo numero di persone avrebbero messo radici nel paese.
E stato naturale, quindi, fare i dovuti distinguo, ad esempio, tra “British”, che suona inevitabilmente ancora un po’ coloniale, e “Kenya Cowboys”, ovvero gli ex (o i figli, oggi i nipoti) latifondisti, agricoltori o allevatori, che si presero gli altipiani a nord e nord ovest di Nairobi e crearono buona parte del patrimonio su cui ancora oggi si sviluppano la produzione agricola, il commercio e l’esportazione del Kenya: piantagioni di tè e di caffè, di frutta e fiori e filiere collegate all’utilizzo della carne e di prodotti caseari.
Con l’avvento del turismo, dagli anni Ottanta in poi, dall’Europa, e nelle regioni costiere soprattutto da Germania e Italia, è arrivato un altro genere di “mzungu” che poi ha deciso di rimanere nel paese, anche perché spesso si è trovato a non avere altra scelta, per questioni affettive o economiche (due aspetti che spesso, particolarmente in Africa, combaciano).
Questi occidentali vengono chiamati “Kenya Kimbo”. Recentemente, una semiseria ricerca pubblicata dal quotidiano The Standard, ha ripercorso la storia dei Kk. Ma prima di tutto, bisogna tornare indietro all’etimo, al perché vengono chiamati così.
Il “Kimbo” è un condimento vegetale simile alla nostra margarina, che serve prevalentemente per friggere ed ha prezzi competitivi rispetto all’olio di semi e addirittura a quello di palma che di solito viene utilizzato dalla gente comune per cucinare ogni alimento. In Kenya, si sa, l’olio di oliva è stato introdotto tardivamente dalle abitudini degli italiani, in quanto gli inglesi hanno sempre preferito cucinare con il burro o, quando necessario (per le fritture, appunto) appunto con l’olio di semi. Roba da ricchi, usato come condimento sulle tavole dei ristoranti e nelle insalate della gente benestante. Il Kimbo non è solo abbordabile, ma è anche completamente bianco. Ecco perché chiamare un “mzungu” che si è adattato alla vita “povera” keniota, come questo prodotto, oltre a far sorridere suona azzeccatissimo.
Chi sono i Kenya Kimbo, di cui oggi tra Nairobi e le principali città keniane e la costa si sente sempre più spesso parlare?
Secondo lo Standard sono quei bianchi che “pur essendo arrivati nel paese piuttosto carichi, sono stati truffati o hanno perso denaro a causa dei loro astuti amanti kenioti mentre si godevano la vita esotica”. Ma è una generalizzazione, e lo stesso estensore dell’articolo ammette che si può definire Kenya Kimbo anche semplicemente quei “mzungu” che ormai sono naturalizzati africani perché hanno vissuto in Kenya per anni e sono addirittura “più locali dei locali”.
Ed effettivamente i KK “sanno contrattare, tanto da far pensare che vogliano "comprare le cose gratis". Come gli elefanti, non dimenticano mai e sgridano il negoziante che pensa di fregarli, citando l'importo - fino all'ultimo centesimo - di ciò che intendono acquistare, avendo probabilmente frequentato il negozio in precedenza”.
Sono l’esatto opposto dei nababbi, o degli splendidi nuovi arrivati, attenti alle promozioni e agli sconti nei negozi di alimentari, tanto che “se amassero l’ugali, sarebbero probabilmente i primi a mettersi in fila per acquistare la farina a 90 scellini al kilo” durante le offerte speciali.
Non spendono in lussi inutili e preferiscono viaggiare in matatu o bodaboda invece di sprecare soldi in taxi e tuktuk. Mangiano spesso nei “vibanda”, i chioschi locali dove solitamente per gli occidentali (ma non per stomaci ed intestini allenati come i loro) dissenteria e salmonella sono di casa, e comprano vestiti dai “mitumba”, le bancarelle locale dove sono ammassati i capi di seconda mano. Non comprano acqua minerale ma fanno bollire quella poco potabile dell’acquedotto, non bevono caffè all’europea ma il tè dei chioschi, facendo colazione con i “mahamri”, i krapfen locali, da 10 centesimi di euro. Il loro controllatissimo budget? Due euro al giorno (oggi, quindi 300 scellini). Secondo il giornalista keniano, il Kenya Kimbo ha più o meno gli stessi problemi dei keniani semi-poveri, “la mancanza di denaro e la necessità di guadagnarsi da vivere” e dal pomeriggio frequentano i pub cercando qualcuno che gli offra da bere e che in qualche modo possa cambiare le sue sorti. Nel vivere spesso di espedienti (ad esempio, come fanno a non tornare mai in Europa pur non avendo la residenza in Kenya?) oppure spendendo tutti i risparmi nel permesso di soggiorno (perché, vale la pena dirlo, ci sono anche i Kenya Kimbo onesti, specialmente tra i pensionati) anche se l’autore della disamina non ci va leggero: “per soggiornare legalmente nel paese, gli stranieri devono avere un passaporto, un visto o anche un permesso di lavoro. Ma per il Kenya Kimbo, la maggior parte ha superato il periodo di accoglienza e, non potendo tornare a casa con il nuovo status, preferisce rimanere qui, anche se illegalmente. Altri si sono fatti confiscare i documenti dai loro amanti che li usano come fonte di estorsione”.
I KK sanno che “i loro giorni migliori appartengono al passato e li si può sorprendere a vantarsi: "Se queste persone mi avessero visto due anni fa, quando avevo i soldi, non mi avrebbero parlato in questo modo", coltivando il pettegolezzo come alta forma di cultura e comunicazione, riunendosi in gruppo per criticare il nuovo KK che si è aggiunto alla loro schiera. Altri fungono da intermediari per i nuovi stranieri che vogliono investire nel Paese. Sciorinano due parole di swahili, a volte conoscono anche intercalare dei dialetti della zona in cui abitano. Ma non sono più rose e fiori, per loro, i tempi sono diventati duri per tutti, anche per loro che “conoscono l'arte della corruzione: possono lavorare con i funzionari governativi, dalla polizia agli ufficiali dell'immigrazione”.
Un ritratto così poco lusinghiero rivela anche una punta di razzismo, della serie “a cosa serve un “mzungu” se non è ricco?”
Così conclude la dotta disquisizione della stampa keniana sui Kenya Kimbo: “Sono dei sopravvissuti incalliti. Che sia il tetto a perdere o che siano stati cacciati di casa per l'affitto accumulato, piuttosto dormiranno in macchina, finché ne avranno una. E se non possono permettersi il biglietto per tornare in patria, si limiteranno a vagare in eterno, fingendo di fare trekking per "tenersi in forma".
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