EDITORIALE
28-11-2023 di Freddie del Curatolo
Se le torri gemelle hanno cambiato per sempre la percezione della sicurezza nel mondo, e hanno fatto sentire gli Stati Uniti, esportatori a tempi alterne di guerre e democrazia, infinitamente più vulnerabili a casa loro, le violenze post elettorali del 2007-2008 in Kenya hanno costituito uno spartiacque per la concezione di “nazione pacifica” del paese dalla sua indipendenza.
Fino ad allora (ed ancora oggi, nelle regioni più remote di questo paese grande quasi tre volte l’Italia) faide, assassinii, incendi di villaggi ed altre amenità di massa dell’essere umano, si limitavano a dispute tribali o territoriali per la pastorizia.
A fine dicembre del 2007, il tribalismo era travestito da politica e per la prima volta accomunava gruppi etnici da sempre rivali, ma (potenza di chi ha pensato di risolvere il problema con il multipartitismo) uniti in due schieramenti. Questo scatenò a livello nazionale quello che era sempre accaduto in ambiti di villaggi e comunità.
Il risultato fu tragico: più di 1000 morti (900, secondo il governo keniota, 1500 secondo le associazioni dei diritti umani), devastazioni a Nairobi ed in tutta la Rift Valley.
Due mesi di guerra civile senza esercito, o meglio con la polizia a spargere benzina sul fuoco, uccidendo anche a caso, nel tentativo di mettere fine alle scorribande.
Senza esercito, ma con dei mandanti politici, che avrebbero tratto i loro vantaggi dal caos, dopo aver cercato reciprocamente di truccare le elezioni.
I due manovratori occulti, secondo la Corte Penale Internazionale, erano i due candidati vicepresidenti di allora, i due nomi più noti del panorama politico keniano degli ultimi vent’anni: Uhuru Kenyatta, a quei tempi vice del rieletto leader Mwai Kibaki, divenuto presidente 4 anni dopo e fino a due anni fa, e William Ruto, allora delfino dell’oppositore Raila Odinga (poi vice dello stesso Kenyatta, in un mai sorprendente valzer africano) ed oggi presidente e suo nemico giurato.
La pubblica accusa li portò davanti a diversi procuratori (chi abbandonava l’incarico, chi veniva sostituito, chi rinunciava ancor prima di iniziare), con l’accusa gravissima di crimini contro l’umanità.
Bene, dopo 16 anni, possiamo dire che nel 2007 non è successo niente.
Almeno, quel che è successo fa parte del processo naturale delle cose, dell’istinto, di una congiunzione astrale, una frustrazione degenerata. Questo perché la CPI ha annunciato la conclusione delle indagini a carico di 6 degli 8 imputati nel processo per le violenze postelettorali.
Non si procederà più in ogni caso, quindi, contro Ruto e Kenyatta, così come per l’allora ministro Henry Kosgey, l'ex Ispettore Generale Mohammed Hussein Ali, l'ex Capo del Servizio Pubblico Francis Muthaura e il conduttore radiofonico ed editore Joshua Arap Sang. Restano indagati due comparse, anche se non si sa bene con quali accuse.
Tutti assolti, e non si saprà mai se, come nel film di Alberto Sordi, “per aver commesso il fatto”.
Probabilmente i grandi accusati sono sempre stati al di sopra di ogni sospetto e la situazione, come disse ai tempi l'ex segretario generale delle Nazioni Unite Koffi Annan, che fu il grande pacificatore, "era sfuggita di mano", ma non ci fu premeditazione.
La vice procuratrice della Cpi, Nazhat Shameem, ha dichiarato ieri di aver preso questa decisione dopo aver valutato le informazioni a sua disposizione, a seguito dell’ennesima autoesclusione di un procuratore capo, Karim Ahmad Khan che aveva abbandonato il caso.
Sono finalmente sollevati di ogni ansietta futura, gli “Ocampo Six”. Così l’opinione pubblica keniana chiama Ruto e gli altri, usando il nome del più convinto ed appassionato accusatore, Luis Moreno Ocampo, ritiratosi nel 2009 dopo aver dedicato dieci anni a cercare d’incriminare dittatori, generali e malviventi vari al comando in diversi paesi africani. Uno su tutti, il sudanese Al Bashir.
Chi glielo va a dire alle famiglie dei bambini dentro le case, delle donne ai balconi, dei fedeli nelle chiese, degli studenti in strada che la polizia sparò senza che nessuno avesse dato loro un ordine? Che una fazione piuttosto che l’altra si armò facendo una colletta?
Che tutto fu semplicemente un equivoco, un buco nero della storia?
Purtroppo, o per fortuna, l’Africa per questi eventi ha sempre una risposta. Forse anche per questo, spesso sono le domande a mancare.
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